Viterbo, quell’alluvione del 7 ottobre 1530, quando l’Urcionio si fa più grande e più grosso

di Luciano Costantini

Per la stragrande maggioranza dei viterbesi il 7 ottobre 1530 è una data come un’altra. Una data che fa parte dell’anonimato della storia. Eppure è quella che segna un disastro. Una devastante alluvione con pesantissimi danni e probabilmente anche dei morti, pure se le cronache del tempo non lo confermano. Una delle tante alluvioni, per la verità, che hanno colpito Viterbo nel corso dei secoli con una dinamica quasi sempre simile: piogge violentissime e abbondanti che accrescono il loro impeto mentre mangiano il terreno, gettandosi dai Cimini lungo la valle dell’Arcionello. Quella del 7 ottobre 1530 è un’occasione per il modesto torrente Urcionio di farsi più grande e più grosso. Ora è un fiume impetuoso che va a mostrare i muscoli nella valle di Faul. Un percorso segnato dalla natura. Gli argini non sono più in grado di reggere l’onda tremenda che si abbatte tra porta Murata e porta San Marco. Il torrente, diventato fiume in piena, precipita lungo la valle di Faul e infine va a schiantarsi contro un antico varco delle mura. A quel tempo non è stata ancora edificata, sulle fondamenta di una preesistente torre, la porta Farnesiana, più conosciuta come porta Faul. Gli storici scrivono di una inondazione rovinosa e di tanta paura anche per il concomitante tentativo dei fuoriusciti Gatteschi di irrompere in città dalla breccia che si è aperta nelle mura. Pericolo però immediatamente sventato dalle milizie cittadine. Passata l’inondazione si cercano i responsabili del disastro. Perché molto spesso, se non sempre, dietro la catastrofe ambientale c’è l’irresponsabilità dell’uomo. Non si può incolpare esclusivamente madre natura se si trasforma in matrigna. Il fatto è che non si è provveduto per tempo a rafforzare gli argini dell’Urcionio, anzi nei pressi sono sorti manufatti e casupole che hanno resa precaria la stabilità del terreno. Il progressivo disboscamento dei Cimini ha favorito poi la corsa e di conseguenza la violenza delle acque. E’ la natura, offesa e brutalizzata, che si prende la rivincita. Accade in quell’ottobre del 1530 e avviene oggi. Anche se sembra che a quel al tempo i Cimini possano vantare un patrimonio forestale rilevante. Certo più robusto di quello attuale. La natura, quel 7 ottobre di cinque secoli, fa semplicemente il proprio corso. Alluvioni analoghe, perfino più drammatiche, si sono verificate prima e avvengono successivamente. Sempre sulla stessa rotta: Cimini, valle dell’Arcionello, valle di Faul. Nel 1344 le acque dell’Urcionio tracimano tra il colle di San Francesco e l’Arcionello. Sfondata la porta del Cunicchio, si riversano inevitabilmente nella valle di Faul fino a schiantare una fetta delle mura. Nel novembre del 1377 ancora l’Urcionio si scatena sotto il convento del Paradiso, abbatte i mulini di Sant’Egidio e di Santa Maria Maddalena che sorgono sulle rive del torrente dove oggi si allunga via Marconi e infine si sconquassa contro l’ospedale di Santo Spirito, all’imbocco della valle di Faul. Ancora un’alluvione nel 1437 demolisce un tratto di mura nei pressi di porta della Verità. Con una leggera variante di percorso rispetto alle valanghe precedenti. Altra inondazione devastante nel 1493. Sicuramente più disastrosa la fiumana del 26 ottobre 1706: il tragitto è sempre lo stesso, ma più dirompente la forza delle acque se è vero che riesce a cancellare alcune abitazioni situate dell’ormai scomparso quartiere della Svolta, tra la parrocchie di Santa Maria del Poggio e di San Luca. Tra l’attuale corso Italia e via Marconi. I crolli fanno diverse vittime anche se non sarà mai accertato il loro numero. Si sa, in compenso, che il disastro convince le autorità amministrative a costruire un argine alla confluenza tra la statale Cassia e l’odierna via Fratelli Rosselli, perché faccia da baluardo contro nuove, possibili tracimazioni dell’Urcionio. Un argine artificiale non esattamente adeguato se è vero che il 18 settembre del 1872 l’ennesima piena fa saltare il manufatto trascinando con sé, fino alle mura della valle di Faul, i corpi di due poveretti miseramente annegati presso La Quercia. E’ l’ultima alluvione che la storia viterbese ricordi.

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