Tuscia in pillole. San Giuseppe frittellaro

di Vincenzo Ceniti*

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Nella Tuscia Viterbese San Giuseppe ha poco ascolto. Nessun paese lo ha eletto a patrono. Un suo  sbiadito ricordo risuona tuttavia il 19 marzo, giorno della ricorrenza, nella frazione le Mosse di Montefiascone, a Pescia Romana, Civita Castellana e  Monterazzano dove è titolare delle rispettive chiese.  A Viterbo gli è intestata la Congregazione dei Giuseppini cui fanno riferimento la storica  Biblioteca di San Giuseppe e le chiese del Murialdo, di San Pietro e di Santa Maria delle Farine. Conosciamo una tela di Pietro Vanni (XIX sec.) raffigurante il Transito di San Giuseppe nella chiesa di San Giovanni a Bagnaia.

Decisamente poco per un santo che fa  parte del “Trio divino” e a cui sono rivolti i nostri ricordi giovanili del presepio che lo vedono inginocchiato nella stalla col bastone  davanti alla mangiatoia.  Sappiamo che  San Giuseppe discende dalla stirpe di David e che viene indicato come il padre putativo di Gesù. Gli evangelisti Matteo e Luca, gli unici a citarlo, ci offrono di lui notizie scarse e frammentarie. Lo vediamo presente in alcuni momenti: censimento, nascita di Gesù, circoncisione, presentazione al Tempio e fuga in Egitto. Episodi peraltro immortalati in opere d’arte di ogni epoca.

Nulla si sa del suo rapporto con il Figlio, ma sappiamo che non ha assistito (in quanto già morto) alla vita pubblica di Gesù, né tanto meno alla sua Passione. Viene ricordato come l’uomo dal cuore giusto, vissuto sempre all’ombra del Figlio e della Madre, componente essenziale della Sacra Famiglia additata come simbolo di unione e di amore. E’ un uomo esemplare che ripone in Dio una totale fiducia, è l’uomo della fede e dell’obbedienza. E’ il patrono della Chiesa Universale.

Protegge i carpentieri, i lavoratori (lo festeggiano il 1° maggio), i moribondi, gli economi e i procuratori legali. L’iconografia più frequente lo vede con in braccio il Bambino Gesù  e nella mano il bastone con il fiore del giglio. A Viterbo la sua immagine più preziosa è nell’affresco quattrocentesco di Lorenzo da Viterbo con lo Sposalizio della Vergine. E’ invocato in tutte le situazioni disperate e per una buona morte.

Ci piace ricordarlo anche per le frittelle di riso (ottime quelle della Tuscia) e una filastrocca-preghiera di Checco Durante “San Giuseppe frittellaro” che il popolare attore romano recitò tanti anni fa al teatro Unione di Viterbo.

 

Ecco la ricetta delle frittelle                                                                              

Ingredienti 

½ kg di riso per risotti

½ litro di latte

3 uova

3 buste di uvetta sultanina

2 bustine di pinoli

1 cubetto di lievito di birra

zucchero, farina, limone grattugiato, sale, cannella, rhum.

 

Preparazione

Mettere a cuocere il riso con acqua, latte, sale e zucchero. Preparare a parte la pasta con il lievito di birra e un po’ di farina. Fare lievitare l’impasto per un’ora. Scolare il riso a metà cottura, farlo raffreddare e unirlo alla pasta. Condire il tutto con uvetta sultanina, pinoli, uova, limone grattugiato, sale, cannella e tre cucchiai di rhum.  Quindi con un cucchiaio modellare le frittelle e metterle a friggere in una padella ricolma di olio di semi.  Depositare le frittelle in un recipiente e spolverare con zucchero e cannella.

 

Ed ecco la filastrocca-preghiera “San Giuseppe frittellaro”

Checco Durante (Roma 1893-1976), popolare attore e  poeta romanesco ha interpretato numerosi personaggi semplici e bonari. Lo vidi  alla fine degli anni Cinquanta al teatro Unione di Viterbo in una commedia dialettale. In quella circostanza recitò tra un atto e l’altro a sipario chiuso,  con sorpresa di tutti, questa filastrocca-preghiera da lui composta nel 1950, un vero distillato di saggezza popolare. 

San Giuseppe frittellaro,
tanto bono e tanto caro,
tu che sei così potente
da aiutà la pòra gente,
tutti pieni de speranza
te spedimo quest’istanza.

Fa sparì da su ‘sta tera
chi desidera la guera;
fa venì l’era beata
che la gente affratellata
da la pace e dal lavoro
nun se scannino tra loro.

Fa che er popolo italiano
ciabbia er pane quotidiano
fatto solo de farina
senza ceci ne saggina.

Fa che calino le tasse
e la luce, er tranve e er gasse;
che ar telefono er gettone,
nun lo mettano un mijone;
che a potè legge er giornale
nun ce serva un capitale;
fa che tutto a Campidojo
vadi liscio come l’ojo;
che a li ricchi troppo ingordi
je se levino li sordi
pe’ curà quer gran malato
che sarebbe l’impiegato
che, così, l’avrebbe vinta
e s’allarga un po’ la cinta;
mò quer povero infelice
fa la cura dell’alice…
e la panza è tanto fina
che s’incolla co’ la schina.

O mio caro San Giuseppe
famme fa un ber par de peppe,
ma fa pure che er pecione
nun le facci cor cartone
che sinnò li stivaletti
doppo un mese che li metti
te li trovi co’ li spacchi
senza sola e senza tacchi.

E fa pure che er norcino
er salame e er cotechino
ce lo facci onestamente
cor maiale solamente
che sinnò li drento c’è
tutta l’arca de Noè.

Manna er freddo e manna er sole
tutto quello che ce vole
pe’ fa bene a la campagna
che sinnò qua nun se magna.

Manna l’acqua che ricrea
che sinnò la sora Acea
ogni vorta che nun piove
s’impressiona e fa le prove
pe’ potè facce annà a letto
cor lumino e er moccoletto.

O gran Santo benedetto
fa che ognuno riabbia un tetto.
La lumaca, affortunata,
cià la casa assicurata
che la porta sempre appresso…
fa pe’ noi puro lo stesso…
facce cresce su la schina
una camera e cucina.

Fa che l’oste, bontà sua,
pe’ fa er vino addopri l’uva
che sinnò quanno lo bevi
manni giù l’acqua de Trevi.

Così er vino fatto bene
fa scordà tutte le pene
e te mette l’allegria.
Grazzie tante…
accusì sia!
  

Nella foto, Checco Durante

 

L’autore*

ceniti

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

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