Tuscia in pillole. Andar per erbe tra le antiche pietre

di Vincenzo Ceniti*

Benedetti contadini di una volta! Saggi, diffidenti, positivi, terragni, testardi. Loro sì che se ne intendevano. Con le erbe spontanee e selvatiche si nutrivano e si curavano, con buona pace di noi del ventunesimo secolo che a stento riusciamo a distinguere una foglia di alloro da una di mentuccia. Quante volte si ricorreva ad  infusi ed impiastri a base di asparago o malva (ma non solo) per fastidiose gastriti o devastanti mal di denti?                                                                                                   

Una cosa è certa. Le erbe dei campi hanno una straordinaria utilità antiossidante e i se nostri padri ne facevano largo consumo, vuol dire che la sapevano lunga sulle loro qualità depurative e rinfrescanti. Dissenteria, gotta, calcoli renali, impotenza, depressione, isterismi, artriti, ulcere (l’elenco è infinito) non sono che alcune tipologie di “acciacchi” cui le erbe avrebbero dato ristoro. Non parliamo, poi, del valore nutrizionale. Romani ed etruschi facevano abbondante uso delle erbe che finivano in zuppe, frittelle e insalate o venivano destinate ad aromatizzare selvaggina e pesci d’acqua dolce.

Oggi, in odore di recupero di borghi, cucina semplice e turismo lento, si registra una riscoperta delle loro proprietà, tanto che in alcuni ristoranti, o tra amici, diventa un vezzo cucinare l’acquacotta con la cicoria di campo, preparare una zuppa di luppoli, una frittata di strigoli appena colti nel prato e qualche frittella di borragine. Sul fronte della comunicazione, si sono intensificate le trasmissioni televisive a tema e le produzioni editoriali di “erbari” e ricettari che ci parlano di un mondo ancora a portata di mano, anche se poco noto.

Ci  piace, allora, gironzolare tra le bancarelle dei mercati rionali o dei negozi di primizie per sbirciare con curiosità asparagi selvatici, gurgulestri, acetoselle, crescioni, ruchette, barbe di capra, creste di gallo, agretti…  E ci fanno rabbia quelle persone, magari non più giovanissime, che sanno tutto sulle erbe di campagna, sanno scovarle e distinguerle da quelle non mangerecce. Bisogna conoscere le sfumature di colore, le varianti della forma, l’intrigo delle radici, i particolari delle foglie e degli steli e metterli in relazione con l’altitudine, l’esposizione al sole, la qualità dei terreni, le temperature, perfino la forza dei venti.

Gli abitanti della Tuscia Viterbese hanno sempre attribuito a queste piante un alto valore nutrizionale e ci fanno credere che le loro virtù siano ancora tutte da scoprire. Ricercatori anglo-americani sono da tempo impegnati per fare luce sul loro vero potere terapeutico. Non c’è che da attendere i risultati. Andar per erbe tra i campi della Maremma o nelle forre che si incrociano tra speroni tufacei presidiati da antichi castelli, dove spuntano luppoli e asparagi selvatici, è a dir poco rigenerante.

La mentuccia ai bordi dei sentieri che dipartono dalle tombe dipinte di Tarquinia, profuma il vento del mare ed evoca i ricordi di antichi lucumoni etruschi, la cui misteriosa civiltà ha cambiato la vita a molti villaggi, non solo dell’Italia centrale. Senza paragoni le nepetelle profumate che si trovano tra le rovine di Ferento. Eguali emozioni a Tuscania, lungo la valle del Marta dove scorre da sempre, con atavica pigrizia, un fiume che convoglia al mare le acque del lago di Bolsena. Lungo le sue rive umide, segnate a volte da intrigate vegetazioni, si trovano le erbe più singolari, come il “crescione”, il “gurgulestro” e la menta acquatica.

Ovunque ci capita di annusare  l’alloro, così “odiato” dal Carducci e così amato da Apollo, la cui nobiltà si fa prestigio nelle gloriose ghirlande messe in capo a poeti, generali, neolaureati e atleti sul podio. Che dire della sua fragranza quando s’accosta all’anguilla o ai fegatelli di maiale allo spiedo? A ridosso del litorale marino, facciamo la conoscenza del cardo,  regale antenato del carciofo, che, insieme alla bietola selvatica, punteggia a primavera vaste  distese di prati. Il rosmarino non è una sorpresa, tanto è diffuso un po’ ovunque, soprattutto nei terreni fronte mare. Quale simbolo di immortalità veniva deposto accanto al faraone prima dell’ultimo sigillo tombale. Che facesse bene alla pelle ce lo conferma una delle più avvenenti favorite del re Sole, Madame de Savigné, che ne faceva buon uso anche contro la depressione, durante i lunghi inverni di Versailles.

Vale sempre la pena di raggiungere i bianchi calanchi della valle del Tevere, nel versante orientale della Tuscia Viterbese, per imprimere nelle pupille l’incredibile scenario di Civita di Bagnoregio, abbarbicata e malferma su un colle di argilla franosa. Nelle trattorie del posto, con un po’ di fortuna, si possono gustare le frittelle di salvia, da abbinare ad un fresco bicchiere di bianco Est! Est!! Est!!! Un’ultima annotazione.  Nelle necropoli rupestri di Castel d’Asso, Norchia e Blera, laddove la vegetazione si fa più arida, c’è da raccogliere cipiccia e lattughella. Provate! I contadini di una volta lo facevano.

Nelle foto, due modi di utilizzare l’alloro: in cucina con le anguille del lago di Bolsena (cover) e all’Università per le neo-laureate (in alto).

 

L’autore*

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

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