Sandro Rossi, un Capofacchino sulle orme di Nello

di Arnaldo Sassi

Sandro Rossi

Da 15 anni è il Capofacchino di Santa Rosa. Ormai anche lui, come molti suoi predecessori, è diventato una parte importante della storia della Macchina. Voce stentorea, modo di fare brusco e imperioso, Sandro Rossi è il capitano del drappello che sa dare la giusta carica ai suoi uomini, anche maltrattandoli (bonariamente, s’intende) se e quando ce n’è bisogno.

Sessantadue anni, di professione imprenditore, Rossi ha avuto la sua personale folgorazione per la Macchina di Santa Rosa quando aveva appena cinque anni. E’ lui stesso a raccontarlo.

“Mi portarono i miei genitori. Stavo a piazza Fontana Grande. Rimasi folgorato ed estasiato da quel campanile che camminava. Quando ripartì, lo seguii, fino a Santa Rosa. Ero imbambolato da quel bagliore. Poi, a un tratto, mi accorsi che i miei genitori non c’erano più e allora, in mezzo a tutta quella folla, mi sentii perso. Alcune persone, vedendomi smarrito, mi consegnarono ai Carabinieri che mi portarono nella caserma di via della Pace. Dopo un po’ arrivarono mio padre e mia madre, che mi riportarono a casa. Ma quella visione mi era rimasta talmente impressa che me ne innamorai subito”.

Quindi, la scelta di fare il Facchino è stata piuttosto scontata…

“Successe a 21 anni, nel 1981. In quel periodo io giocavo a rugby e alcuni miei colleghi erano anche Facchini. Non mi ricordo chi mi disse di andare a fare la prova e decisi di provarci. Anche se all’epoca per me i Facchini erano come dei. Mai avrei pensato di poter raggiungere anch’io quell’obiettivo. Comunque, mi buttai”.

E andò bene…

“Beh, la cosa fu piuttosto complicata. All’epoca non era come adesso. Durante l’estate tutti gli addetti erano impegnati a fare vari aggiustamenti alla Macchina, che era fatta di cartapesta. E tra un aggiustamento e l’altro si facevano le prove. La feci, sotto lo sguardo attento di Nello Celestini e di Rosario Valeri (all’epoca c’era ‘Spirale di fede’). Feci i tre giri e si limitarono a dirmi: ti faremo sapere”.

E poi?

“Arrivò il momento che la Macchina fosse trasportata a pezzi a San Sisto per il montaggio. C’erano tanti curiosi e tra questi c’ero anch’io. Ad un tratto mi chiamò Nello, dicendomi: ‘Rifai la prova’. La rifeci, ma pure stavolta non arrivò nessuna risposta. Intanto il giorno del trasporto si avvicinava e io stavo sulle spine. Ma tutti i giorni andavo alla chiesa della Pace. Fu così che Nello mi fece rifare la prova per la terza volta e stavolta parlò, dicendomi: ‘preparati il vestito’. Fui messo subito a spalletta”.

Cosa si prova al primo trasporto?

“Non capisci niente. Non sai dove ti trovi, non sai dove mettere i piedi. Sei timoroso guardando quelli più esperti di te. Ma capisci che è bello stare con questa gente”.

Poi, da spalletta a ciuffo…

“Sì, dopo tre anni. Accadde a piazza del Comune. Un Facchino prese un controbalzo e si fece male. Nello cominciò a urlare: ‘Rossi, Rossi, dove sei?’. Io mi misi anche paura, pensando di aver commesso qualche sciocchezza. Invece lui mi dette il ciuffo e mi disse che quel Facchino lo avrei sostituito io. Fu come ricevere una pugnalata. Ma la gioia fu infinita”.

Che differenza c’è tra spalletta e ciuffo?

“Ogni ruolo è un passaggio che implica più complicazioni. Non è tanto una questione di peso, ma un approccio mentale. La formazione si fa generalmente a luglio e ogni Facchino ha il tempo materiale per studiare il suo ruolo. Io non l’ebbi. Ma sono rimasto ciuffo per ben 27 anni”.

Poi il passaggio a Capofacchino…

“E’ nella natura delle cose, perché col passare degli anni c’è di conseguenza anche un cambio generazionale. Prima Nello fu sostituito dal figlio Lorenzo, poi da Giovanni Adami e nel 2007 fui eletto io”.

Quindi sono 15 anni che ricopri questo ruolo. E, da quello che si vede e si sente durante il trasporto, sei un grande motivatore…

“Beh, devo dire che Nello Celestini è stato per me un grande maestro. La sera in cui fui eletto andammo tutti a cena e la mattina dopo andai a trovare Nello, che stava in ospedale. Gli annunciai la mia nomina. Lui mi abbracciò e si mise a piangere”.

Com’è oggi il rapporto coi Facchini?

“Io sono grande e grosso, ma fondamentalmente sono un buono. Tanti di loro li ho messi dentro io, li ho visti crescere e li tratto come figli. Se hanno un problema si rivolgono a me e io cerco di risolverlo. E’ un fattore psicologico che ha bisogno di anni, ma io lo curo particolarmente. Però il 3 settembre mi trasformo…”.

In che senso?

“Nel senso che la sera del trasporto loro si aspettano un uomo forte, che sappia anche coprire le sue debolezze. E’ vero, urlo e comincio a farlo sin dal ritiro. Perché è giusto che io li motivi. Loro se lo aspettano, lo vogliono. Guai se non lo facessi. Devo accendere la fiamma che è in loro. Ma questo incoraggiamento dura fino all’arrivo a San Sisto. Poi ci vuole altra benzina…”.

Quale?

“La gente!”.

A proposito di gente lungo il percorso…

“No, non mi va di fare polemiche. Ma una cosa la voglio dire: io e Massimo (Mecarini, ndr) ci occupiamo del trasporto da circa 40 anni. Invece di fare le cose a nostra insaputa un consiglio qualcuno ce lo avrebbe anche potuto anche chiedere…”.

Si può dire che oggi il Sodalizio è come una famiglia? In passato non è stato sempre così…

“Si, oggi siamo una famiglia. Ricordo che in passato si faceva anche a sediate. Ora però aspettiamo il prossimo cambio generazionale. Staremo a vedere cosa succederà

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