LO SCAFFALE/Daniel Kehlmann: I fratelli Friedland

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I fratelli Friedland è uno di quei romanzi che si finisce per apprezzare ma non amare completamente. Sarà a causa della trama, sviluppata in parti decisamente separate l’una dall’altra. Sarà per la resa dei personaggi, alcuni più interessanti di altri. O forse sarà che Kehlmann ‒ giovane autore tedesco, noto soprattutto per il caso editoriale La misura del mondo ‒ è uno scrittore onnivoro, desideroso di mettere su carta tutto ciò che la sua mente produce. E questo talvolta può essere un vero limite, laddove si genera un po’ di confusione e non si riescono e tenere insieme i diversi fili della narrazione.

Semplice la trama: un padre disoccupato e aspirante scrittore partecipa con i suoi tre figli adolescenti a uno spettacolo di magia del grande Lindemann. Il maestro dell’ipnosi sembra lasciare un segno nell’animo di tutti e quattro, soprattutto in Arthur, un uomo scettico e razionalista, che viene invitato a salire sul palco. In questa parte del racconto, i dialoghi sono brevi e intensi, l’atmosfera di suspense e drammaticità viene restituita al lettore in tutta la sua pienezza. Non siamo di fronte a una realtà rappresentata, ma alla rappresentazione di una rappresentazione, che a sua volta ha dentro tutti gli elementi di una farsa o di una tragedia. Insomma, la magia come teatro.

Il tempo successivo della narrazione vede già i tre ragazzi divenuti uomini e il padre scrittore di successo, ma lontano dai suoi figli. Infatti è fuggito portandosi via tutti i soldi dopo quella notte di magia. A questo punto, le possibilità narrative si aprirebbero a macchia d’olio, soprattuto sul rapporto troncato tra padre e figli. Ma Kehlmann non insiste troppo su questo. Segue le esistenze individuali dei tre fratelli divenuti un prete, un consulente finanziario, un artista.

Chi per un verso, la mancanza di fede, chi per un altro, guai finanziari, si ritrovano tutti vittime di una precarietà esistenziale e sociale che attende solo di risolversi in un aperto conflitto o in una rinuncia a se stessi. Tra i personaggi, come sottolineato all’inizio, quello di Martin, il prete, sembra decisamente il più riuscito, visto il suo spessore psicologico e il tema caro a Kehlmann della religione ‒ non mancano nel testo alcuni inserti di filosofia e teologia piuttosto spiazzanti visto il registro del resto del romanzo. A un certo punto della narrazione, però, si avvertirà quel fastidioso distacco emotivo dal testo, che non tutti i lettori accettano di buon grado.

… L’acqua era soltanto acqua, il prete aveva l’aria di un confusionario ostinato, e accanto a mia madre dal sorriso malinconico mio fratello Ivan lottava visibilmente per soffocare la ridarella.

Eppure ero fiducioso che la fede sarebbe arrivata. C’era tanta gente giudiziosa che credeva. Bisognava solo leggere di più, andare a messa più spesso e pregare di più. Bisognava esercitarsi. Appena avessi creduto in Dio tutto si sarebbe sistemato e la mia vita, in aggiunta, sarebbe diventata un destino. E allora tutto sarebbe stato volere del cielo.

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