Le Case della Vita. Via San Sebastiano-L’uomo coi baffi

di Maria Letizia Casciani

La casa è il vostro corpo più grande. Vive nel sole e si addormenta nella quiete della notte; e non è senza sogni.
(Kahlil Gibran)

Lo avevo conosciuto in paese, qualche mese prima, durante una cena in casa dell’amica fricchettona che frequentavo da un po’: erano stati compagni di università ed il loro rapporto risaliva a molti anni addietro. C’era tra loro una bella complicità e si vedeva: scherzavano, chiacchieravano, si punzecchiavano a vicenda.
Era un uomo minuto, dall’aria remissiva, aveva delle mani piccole e sempre in movimento; mi resi ben presto conto che la sua forza era situata tutta negli occhi, scurissimi e profondi. Amava osservare le persone restando in silenzio, preferendo di gran lunga ascoltarle. Quando, però, prendeva la parola per dire qualcosa, non era mai per esprimere qualcosa di scontato.
Amava molto la vita, in tutte le sue possibili declinazioni. Sembrava animato, quasi posseduto, dalla curiosità, a tratti smaniosa, di conoscere il mondo. Il desiderio di sperimentare fino in fondo tutto ciò che aveva davanti, sembrava contrastare con la sua calma, che, infatti, era solo apparente. Raramente si faceva trascinare dalla rabbia, ma era capace di un’ironia raffinatissima, a tratti criptica, a tratti mordente.
Tutte queste sfaccettature della sua personalità me lo fecero piacere fin da subito: era un uomo con cui si viveva e si rideva volentieri. Col passare dei giorni e delle settimane mi accorsi, ascoltandolo e parlando con lui, che si stava creando tra noi una bella affinità. Non assomigliava a nessuna delle persone che avevo conosciuto fino a quel momento della mia vita. Non pensai subito che potesse nascere qualcosa tra noi e, almeno all’inizio, egli fu per me soltanto un nuovo amico. Uno del nostro grande gruppo.
Avevo vent’anni e lui aveva da poco superato i trenta.
Eravamo due mondi diversi, che non credevo potessero incontrarsi, se non da lontano, come accade a due cortesi dirimpettai, che si salutano dai lati opposti della stessa strada, senza pensare ancora di accorciare le distanze, di fare amicizia.
Veniva da un famiglia della buona borghesia cittadina; suo padre era un professionista abbastanza conosciuto, sua madre una casalinga col pallino dell’arredamento e dell’eleganza: egli aveva dunque ricevuto ed assimilato i comportamenti giusti, conosceva le parole e le espressioni da usare in ogni contesto, mentre io sentivo pesare su di me fortemente le radici della mia famiglia quasi proletaria; a malapena ero riuscita a liberarmi dal giogo del dialetto e soffrivo di un forte senso di inferiorità, che mi creava ansie e dubbi nelle diverse occasioni della vita.
Ero consapevole di non conoscere le regole del galateo e questo mi metteva spesso a disagio: come si mangia correttamente a tavola? Quali posate si usano e quando? Come si parla a lungo con gli altri? Qual è il tono giusto da utilizzare nelle conversazioni? Questi erano dubbi capaci di generare in me tremende ansie. La vita di paese mi aveva fino a quel momento tenuto al riparo, perché lì nessuno si poneva problemi di questa natura, dal momento che le stratificazioni sociali erano quasi inesistenti.
Quando però mi trovavo in situazioni “ufficiali”, in mezzo a persone diverse da quelle alle quali ero abituata e di cui temevo il giudizio, preferivo starmene in un angolo ad ascoltare. Evitavo di espormi, sperando di risultare trasparente agli occhi di tutti. Ero una specialista della mimetizzazione.
Mi meravigliai molto, quindi, quando mi resi conto che l’uomo coi baffi mi guardava con interesse diverso da quello che si prova per un’amica, che provava qualcosa per me e che quel qualcosa era addirittura profondo. Ne fui addirittura preoccupata, come se mi sentissi gravata da una responsabilità troppo pesante, come se, anche in quel caso, temessi il giudizio di una persona che proveniva da un ambiente tanto diverso dal mio.
Lavorava anche lui come professionista ed era già piuttosto affermato. Aveva seguito diversi progetti che gli avevano procurato un certo apprezzamento. Il lavoro “ufficiale”, però, quello che gli era indispensabile per vivere, era solo la punta dell’iceberg della sua esistenza. Non sembrava che ci fosse nella sua vita, in ogni sua giornata, un solo minuto libero da una qualche occupazione.
Praticava a livello agonistico vela e jogging – si apprestava a preparare la sua prima maratona; dipingeva acquerelli, pescava a mosca, era un fotografo provetto, si dilettava di rally, sciava, praticando lo sci di fondo. D’estate andava spesso con degli amici in montagna per divertirsi con le arrampicate. Amava viaggiare e lo faceva non appena possibile.
In una delle nostre prime uscite mi promise che mi avrebbe fatto conoscere tutte queste belle cose e nel corso degli anni fu di parola. In lui trovai infatti un maestro paziente e attento, che riuscì a fare di me una persona molto diversa, rispetto a quella che aveva conosciuto.
Si era innamorato di me e mi fece una corte serrata. Io ero molto attratta da lui. Tutto questo mi creò anche un po’ di preoccupazione. Mi piaceva, ero tentata, ma esitavo: c’erano anche un bel po’ di anni di differenza a separarci.
Non avevo mai avuto a che fare con i trentenni: non sapevo cosa potesse interessare loro, quale fosse la loro visione della vita, quali fossero le loro aspettative riguardo al futuro.
Aveva vissuto il Sessantotto, mentre frequentava l’università: io, del Sessantotto, conservavo una bella foto ricordo della seconda elementare, che meglio di qualsiasi discorso, era in grado di spiegare quale fossato esistesse tra di noi, a livello di esperienze di vita.
Fui, però, travolta dal suo entusiasmo: veniva continuamente a cercarmi, ci sentivamo spesso al telefono e, dopo qualche tempo, quando fu sicuro dei miei sentimenti per lui, cominciò a parlarmi di convivenza. Voleva che andassi a vivere con lui, che abitava nella città vicina, un luogo che conoscevo ancora pochissimo.
Avevo appena finito il liceo, ero una semplice studentessa universitaria e qualcuno faceva progetti di vita con me. Mi sembrava una novità abbastanza inverosimile. Una rivoluzione.
Fui tentata da questa nuova prospettiva e, a poco a poco, mi lasciai convincere da quei progetti, che, in un modo o nell’altro, prevedevano tutti la mia presenza.
Facevamo lunghe e romantiche passeggiate, nei boschi, in campagna, al mare, perché era anche un grande conoscitore e amante della natura.
Una sera mi portò in città, per farmi conoscere la casa dove abitava da solo, in via di San Sebastiano, in pieno centro storico.
Era un appartamento situato all’interno di un antico edificio. C’erano due stanze grandissime, con i soffitti affrescati: Muse e ghirlande di fiori e frutta decoravano tutta la superficie. Non avevo mai visto una tale meraviglia: era una casa arredata con grande gusto. Non c’erano termosifoni a scaldarla, ma al centro del grande salone troneggiava una enorme stufa metallica alimentata a cherosene. Gli piacevano molto, in fatto di arredamento e di stile, le mescolanze, derivate probabilmente dalla passione che sua madre aveva per mobili, tende e tappeti.
Dalle finestre di quella casa, che affacciavano sulla via principale del centro, si vedevano una grande magnolia, che apparteneva al giardino del sindaco, ed una serie di torri, l’ultima traccia ormai visibile dell’antico potere delle famiglie nobili che avevano dominato la città ai tempi della lotta tra guelfi e ghibellini.
In tutto l’appartamento erano disposti dei tavoli da lavoro, ognuno per un interesse diverso: il tavolo della lettura, quello del disegno, quello utilizzato per fabbricare, con piume e fili di seta, le “mosche” che l’uomo coi baffi utilizzava per andare a pesca.
Conosceva perfettamente tutti gli stadi degli insetti che vivevano nei fiumi in cui andava a pescare. Ogni periodo dell’anno, ogni ora del giorno, prevedevano infatti l’uso di mosche diverse e lui le appuntava diligentemente e meticolosamente sul bordo del cappello di velluto a coste o di tela con cui andava a pescare, oppure riposte in una scatolina di metallo rivestita di gommapiuma sulla quale poggiavano delicatamente. Un uomo adorabile, anche in questi piccoli gesti.
Questo amore mi era piombato addosso senza preavviso e mi stordì un poco, ma alla sua ennesima proposta di cominciare una vita insieme risposi che anche io lo desideravo e molto.
Avevo risposto di sì, in modo istintivo, senza pensarci troppo e, soprattutto, senza fare i conti con quello che avrebbe detto e pensato mia madre di questa mia scelta.

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