“Laura racconta”: Piombo

di Laura Sega Marchesini*

E’ il primo dei sette racconti brevi che costituiranno un appuntamento cadenzato da qui alla fine dell’anno per meglio conoscere una  scrittrice nativa della Tuscia da anni residente nella vicina Orvieto.

Piombo

Le ciglia non ebbero il tempo di appoggiarsi alle palpebre ancora socchiuse che il pensiero rapido andò all’assordante e ossessivo suono della campanella elettrica che anestetizzava l’ebbro e fiabesco desiderio di esercitare la forza della sua personalità di piccola donna.

Nella decisiva rincorsa di quegli attimi non poteva fallire, non doveva fallire. Le sue mani ferme e affusolate tradivano un innocente velo d’emozione che solo la lucidità e la concentrazione riuscivano a sublimare. Il babbo le aveva dato tutte le indicazioni, era pronta. Se a lampeggiare, sul grigio quadro metallico, era una sola luce si trattava di un treno “pari”, proveniente da sud, la chiave a destra andava girata verso sinistra ma non prima di un retroscatto all’indietro sbloccante. Se le luci erano due si trattava di un treno “dispari”, proveniente da nord e la chiave era la sinistra, da girare verso destra, ma non senza prima aver liberato l’altra ancora a destra. Quell’ingombrante oggetto, filettato grossolanamente, sbloccando così il grande pannello inchiavardato alla parete polverosa inviava un segnale elettrico di “verde” ai semafori sul binario poco lontano. Solo così, la pesante chiave, una volta estratta, si sarebbe potuta inserire nel blocco d’acciaio saldato a terra a cui era attaccato un meccanismo essenziale e alquanto rudimentale a catena e manovella la quale, attivata dalla chiave, poteva essere ruotata con energia sino a che la sbarra del passaggio a livello, a una decina di metri là fuori, fosse completamente verticale e la catena ormai del tutto tesa e tirata si agganciasse e arrestasse la potente forza contraria di srotolamento. Era in quel risicato spazio disponibile di secondi a disposizione prima dell’arrivo del treno che la polvere secca dei massi di pietra sul binario brillava come luce siderale negli occhi di Annetta, così la chiamava il babbo. Ogni tanto accadeva che la grande pesantezza di quel grezzo marchingegno, accentuata dalla gravità di quella contro tensione facesse scappare dalle mani la pericolosa manovella d’acciaio sprigionando così la catena in tutta la sua velocità automoltiplicatrice col rischio di non essere recuperata facendo precipitare la sbarra del passaggio a livello verso la base e di scagliarsi così sul braccio nudo di Annetta. Ogni suono, ogni treno, rinnovavano la necessità canaglia di dimostrare il temerario autocontrollo che sapeva già di possedere. L’eccezionalità della forza nelle sue piccole braccia compensava la consapevole cautela con cui si sostituiva per gioco al lavoro del babbo. Quel binario arido e plumbeo rilasciava profumi di mare e sale. Era la roulette russa della sua candida caparbietà. Il carattere deciso e docile si adagiava nella fierezza della fiducia, alquanto incosciente per la verità, che il babbo le concedeva senza però mai affrancarla da quella responsabilità. Un dolce peso, a cui affidò per sempre la propria autostima, l’eterno inconsapevole tributo al bisogno d’essere amata. Annetta arrivava sul posto di lavoro del babbo percorrendo un breve viottolo di pietra chiara. Sentiva quei rigidi mattoni scoloriti dalla salsedine portata dal vento farsi via via più soffici al suo smanioso e fluido passaggio, come trasportata da un’antica danza di cui non conosceva ancora i passi. La bruma mattutina cadeva leggera sulla freschezza dei suoi nove anni che si raccoglievano timidi e indifesi nella sicura mano del babbo per poi liberarsi nella porpora rossa delle sue tenere guance. L’odore acre dell’angusta garitta grigia era un miscuglio di grasso e piombo. Solo il caffèllatte delle otto e trenta riusciva a scioglierlo in un maledetto malinconico sapore di ricordo, che Annetta sapeva sarebbe durato per sempre. Il babbo glielo preparava su quel precario fornetto elettrico rosso che incastrava posticcio tra la manovella e il tavolaccio di legno marrone. Annetta era felice, seduta sull’angolo dell’unica sedia rotta. Aspettava lì il segnale perentorio e premonitore della prossima campanella senza sapere com’è crudo il graffio della memoria, attrice protagonista dolce e spietata, spregiudicata interprete dei pensieri migliori. L’aria rarefatta e consumata intrisa d’olio e metallo la stordiva e la incantava, come trasportata lungo gli attimi, avvolta di poesia. Il rumore invadente ed alienante del passaggio del treno sul binario si fece d’un tratto ovattato, quasi assente, come trattenuto: inerme prigioniero nei colori di un quadro sbiadito d’un mondo ormai lontano. Anna riaprì gli occhi portando lo sguardo verso la sua mano come attratta da un istintivo e potente richiamo. C’era una chiave di piombo con inciso 1989.

(Prossimo appuntamento il 23 ottobre)

L’Autrice

Laura Sega Marchesini, laureata in Economia è scrittrice di racconti, saggi e articoli su riviste cartacee e quotidiani on line. E’ cantante, cultrice di musica e tiene concerti come voce solista.

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