Il professor Quirino Galli svela i misteri del Teatro Unione e l’importanza dei teatri della provincia

di Luciano Costantini

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Cosa sarebbe un teatro, un castello, un museo senza la presenza del fantasma di casa? Immanenza discreta, protettrice o dispettosa, ma ineludibile per assecondare la suggestione della leggenda. Viterbo dal 1855 ha il suo stupendo teatro Unione, ma non può vantare un proprio fantasma che aleggi tra le quinte, che scivoli tra i palchetti, che si celi nei camerini. Insomma, non può favoleggiare di presenze misteriose, ma ha tanta storia da raccontare. Insieme a quelle, magari meno nobili ma ugualmente rilevanti, di altri teatri della Tuscia. L’ultima “puntata” de “La Storia, le Storie”, all’Unione ha offerto la possibilità allo storico del teatro, professor Quirino Galli, di raccontare, di svelare tanti misteri, che poi tali non sono, partendo dalle origini dell’arte teatrale, alle vicende dei siti più importanti della provincia. Dalla nascita del teatro dei Nobili a Viterbo, all’inizio del Seicento, all’Unione appunto, passando per il Genio. Quello dei Nobili – ha spiegato Galli – sorgeva a piazza del Comune, appena sopra il bar centrale. A fondarlo i membri dell’Accademia degli Ardenti che pretesero una fila di palchetti per non confondersi con il popolo. Poi tre mercanti viterbesi, evidentemente danarosi, acquistarono case, casette e terreni in centro per realizzarvi il teatro del Genio che così si chiamò perché in alto, sul soffitto, era dipinto naturalmente un genio. Fu costretto a chiudere i battenti nel 1714 perché abbastanza malandato e riaprì nove anni dopo. Ancora una chiusura nel 1798 e riapertura nel 1805 con un grandissimo per quanto inedito numero: la presenza sulla scena di una donna. Galli ha ricordato anche l’importanza di altri teatri della provincia: da quello di Tarquinia sigillato e poi riaperto a distanza di mezzo secolo nel 1812, a quello di Acquapendente ricavato da un granaio, a quello sfolgorante di Ronciglione voluto dalla famiglia Farnese. E di nuovo un passaggio sull’Unione. Lo studioso ha portato con sé il verbale di consegna dell’opera del Vespignani al Comune. Tante, tantissime minuzie tecniche. Insieme al problema inevitabile del fumo con lampade inizialmente alimentate ad olio e conseguenti rischi di incendio. Fumo che creava problemi per gli attori “che non riuscivano più a recitare” e per gli spettatori “che non riuscivano più a vedere”. Poi, finalmente alla fine dell’Ottocento arriva a Viterbo l’illuminazione pubblica e, nel 1905, entra in teatro. Solo venti anni più tardi faranno il loro ingresso i riflettori. “Fiat lux”. Il resto è un pezzo di storia fin troppo recente per essere raccontata. Anche se lo meriterebbe.

 

 

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