Confraternita S.Leonardo, il Venerdì Santo la liberazione di un condannato

Luciano Costantini

Tutti dentro, per il secondo anno consecutivo. Anche venerdì prossimo il maledetto Covid impedirà, in oltre venti centri della Tuscia, di allestire e far uscire dalle tante chiese i suggestivi cortei storici del “Cristo morto”, organizzati quasi sempre dalle varie confraternite: oltre una dozzina soltanto a Viterbo. Da quella del Gonfalone a quella di San Carlo, da quella di San Girolamo a quella di San Giovanni Decollato, da quella della Morte a quella di San Leonardo. A Viterbo un medaglione in peperino, rosicchiato dal tempo, su un muro di una vecchia abitazione di via Cairoli; un’altra formella, ancora in peperino, che emerge dall’intonaco di una dimora nobiliare in via San Lorenzo. Tutte e due mostrano la figura di un uomo in catene e sotto l’incisione inequivocabile: “confraternita s.leonardo”. A segnalare che lì operò o comunque fu presente il sodalizio intitolato al santo protettore dei carcerati e che proprio nel giorno di Venerdì Santo aveva la possibilità di far rimettere in libertà un condannato, tenuto in prigione e magari anche in attesa di essere giustiziato. Scarcerazione che avveniva in contemporanea con lo svolgimento della processione del Cristo Morto. Una confraternita, quella di San Leonardo, istituita nel 1541 che aveva – come recita lo statuto – lo scopo principale di tutelare e sorvegliare le pubbliche carceri, assistere i carcerati e, appunto, liberare uno di essi in occasione del Venerdì Santo. In pratica, il sodalizio di San Leonardo doveva adoperarsi perché i detenuti avessero il diritto a un rapido processo (dopo due/tre giorni di detenzione al massimo). Altro che le lunghe carcerazioni in attesa di giudizio che oggi rientrano nella normalità. Oltre tutto lo stesso sodalizio provvedeva a pagare vitto e alloggio (si fa per dire) al detenuto: tre libbre di pane, una di carne, verdura e tre fogliette di vino, per una spesa complessiva di 12 baiocchi e mezzo. Un costo sostenibile, considerata la cospicua entità delle entrate di affiliati e simpatizzanti nonché evidentemente qualche contributo proveniente delle parrocchie di appartenenza. Nei primi anni dopo la fondazione la sede della confraternita fu ospitata nei locali a destra dell’entrata del Comune, nel 1563 nell’attiguo palazzo del Podestà e nel 1576 nell’edificio che sorge all’angolo tra via Cavour e via San Lorenzo, che più tardi venne trasformato in un carcere (vedasi al primo piano le tracce dove erano inserire le inferriate) e oggi sede di alcuni uffici dell’amministrazione comunale. Tutti i soci della confraternita erano in divisa, insomma vestivano allo stesso modo: un sacco di tela rosso cupo con maniche chiuse e un cappuccio dello stesso colore. Poi, dal 1786, fu aggiunta una sorta di mantellina turchina, filettata di rosso con bottoni e asole sempre in rosso, per distinguere i propri soci con quelli del sodalizio del Santissimo Nome di Gesù. Nella cronaca del lungo percorso di vita della San Leonardo resta segnato l’anno 1761 allorché il carcere, prima del trasferimento in piazza Sallupara, rimase vuoto “per mancanza di inquilini”. Circostanza ricordata da una epigrafe posta sul palazzo del governatore, Emerigo  Bolognini, il quale – si dice – poté mostrare al popolo plaudente le celle vuote e il portone d’ingresso aperto. Ma verosimilmente più per un caso irripetibile che per l’intervento della confraternita.

COMMENTA SU FACEBOOK

CONDIVIDI