Montefiascone sta ad Adriano Pugno come Hogwarts sta alla Rowling. Un cognome conosciuto, che annunciava un percorso segnato, come spesso accade ai figli dei medici; un’infanzia felice tra amici e famiglia: segnali fondamentali per giocare in contropiede e scegliere la lontananza, preferendo la carta e la penna, al camice e al bisturi. Laurea in Lettere all’Alma Mater di Bologna. Niente Roma, niente andata e ritorno nei weekend. Dal nido sicuro, Adriano ha pensato, che per diventare grande, si doveva allontanare il più possibile. Anche se negli anni il suo magico mondo è rimasto tra quei palazzi arroccati che guardano il Lago, con la consapevolezza che dall’alto se ne vedono tante.
Difficile il distacco?
I primi anni sì. Dovevo dimostrare a me stesso di potercela fare. Però, quanti però. Andavo in mensa e mi trovavo solo con il mio vassoio, mentre osservavo i vari gruppetti intorno a me. Non è stato facile fare amicizia. Mi ricordo la prima festa universitaria, si esibiva un giovane di belle speranze che oggi è diventato anche un nome, Iosonouncane. Veniva contestato a priori. Io assistevo alla goliardia e alle proteste e mi sentivo estraneo a tutto: la mia esperienza era quella ovattata di Montefiascone, passare dai concerti seduti in piazzale Roma a una folla urlante in piazza Verdi è stato un bell’impatto. Ma a dispetto delle parole di Lucio Dalla, secondo cui a Bologna non si perde neanche un bambino, io mi sono perso, e anche se può sembrare retorica, è stato bello smarrirsi perché mi ha aiutato a ritrovarmi con nuovi punti di orientamento.
Dopo Bologna la distanza è aumentata: destinazione Torino?
Sono a Torino dal 2014 quando ho iniziato la Scuola Holden. È una città che adoro, ma di cui avverto la lontananza. Da Bologna una sorpresa a casa la potevo fare, da Torino no. Recentemente sono andato a Parigi in macchina e mi sono reso conto che Roma e Parigi, in chilometri, sono equidistanti da Torino e questo mi ha dato un senso di vertigine. Quando torno a casa ho sete di racconti, è come se volessi colmare il vuoto che si è creato durante l’assenza. I personaggi che animano il mio vissuto rimangono nella loro aurea di leggenda, mi stupirei se cambiassero. Come quando vai a Eurodisney e sai che potrai sempre abbracciare Topolino durante la parata. Ma adesso noto che siamo diventati tutti più grandi, con vite più stabili e con meno colpi di scena. E questo un po’ mi manca, quando arrivo a casa mi aspetto sempre che esca il coniglio dal cilindro, cosa che non succede mai o quasi mai. Ma allontanarsi per la scrittura è fondamentale, ti dà quella giusta distanza per raccontare le cose: quello che sembra interessantissimo da lontano, qui è la quotidianità.
Provincia e grande città, chi vince e chi perde?
Dopo 10 anni di vita fuori ho capito che nelle grandi città è difficile creare una comunità, che sia fatta di idee o di persone che vivono vicine. Il senso di comunità lo puoi costruire solo nelle province: da noi ci sono intere frazioni di parenti, sembra una cosa antica, si fa fatica a pensare che nel 2020 esistano ancora vie dove tutti hanno lo stesso cognome, ma qui è così. E quando succede qualcosa, di bello o di brutto, si crea una rete di protezione che ti fa sentire avvolto e al sicuro. Nella grandi città nascono rapporti singoli, è difficile creare una relazione di comunità. Il risvolto negativo della provincia è quello che non ti perdona se provi a fare un qualcosa che coinvolga tutti. Il percorso personale viene apprezzato, ma se punti ad un’iniziativa comune c’è sempre il famigerato io l’avrei fatto meglio. Che è un atteggiamento difficile da combattere, perché potrebbe essere costruttivo se ne derivasse una competizione virtuosa, ma il più delle volte non è così. Basta pensare a Caffeina. Non so cosa sia successo e i perché non li conosco, ma è un peccato che una realtà culturale che ha caratterizzato l’ultimo decennio viterbese, riconosciuta a livello nazionale, rischi ora di scomparire.
In queste vacanze sei tornato in veste di autore con il tuo libro sulla tv “Hanno ucciso l’uomo Gatto”
Il libro è nato alla Scuola Holden, è stato il mio progetto finale ma poi è rimasto nel cassetto per anni. Alla fine mi sono detto che dovevo trovare il coraggio di confrontarmi con qualcosa di più lungo e di più strutturato rispetto alla scrittura di racconti brevi e agli articoli a cui mi sono sempre dedicato.
Ma la scrittura me la porto dietro da bambino. Ho ritrovato un giornalino che scrivevo da piccolo, raccontavo la mia vita sottoforma di editoriale. Ho fatto il liceo Scientifico, ma ho sempre amato le materie letterarie (ma sogno un giorno di prendere una laurea in matematica, anche se ci dovessi mettere due anni a superare l’esame di analisi). Con gli amici abbiamo formato un gruppo di scrittura, ci davamo un tema alla settimana e ognuno creava un suo racconto. È stata un’occasione per mantenersi in allenamento, come uno sportivo che si vede per correre con gli amici.
Se dovessi dire chi ha seminato in te il seme della creatività e del racconto?
Anche se molto diverse tra loro ho avuto molte figure guida in famiglia, a partire da mio nonno Enrico. Scriveva poesie, e aveva uno stile un po’ carducciano. Ogni suo componimento aveva i tratti di un fermo immagine.
Mia nonna, insieme alle sue amiche, è colei che mi ha fatto conoscere il mondo narrativo della televisione. Quando ero piccolo stavo tanto con lei, anche di più che con i miei coetanei, ero il nipotino che la accompagnava quando incontrava le amiche. La televisione faceva da sottofondo e io ascoltavo, loro chiacchieravano e io mi perdevo nel sottofondo delle trasmissioni di Paolo Limiti, così ho conosciuto il personaggio Claudio Villa, prima ancora di conoscere le sue canzoni, per esempio. Inoltre mio padre e mia madre li ho sempre considerati dei cantastorie, perché avevano un gusto peculiare per l’aneddoto, sapevano raccontare anche il quotidiano in modo divertente e coinvolgente, così come parlavano di politica o di cultura, ma sempre con una grande capacità narrativa .
Montefiascone ha generato molti ragazzi con il germe della scrittura?
È una cosa su cui ho riflettuto: credo che a Montefiascone ci sia una fortissima epica della provincia. Quando inizi la Holden e ti fanno scrivere i primi racconti, l’errore più comune è prendere la quotidianità e riversarla sul foglio: ne viene fuori un calco abbastanza insipido, invece bisogna creare un’epica. Vivendo in zone come queste ci sono personaggi che si conoscono solo per il soprannome, ma sono leggendari, ci sono storie tramandate da generazioni. Tra 15mila abitanti, ci si conosce tutti ma non così in fondo ed è come se ci fosse una continua leggenda, l’immaginario di provincia aiuta tanto. Si passa del tempo al bar ed è come avere davanti un palcoscenico, mentre nella grande città se esci dieci volte incontri persone sempre diverse. La pluralità di punti di vista è importante, apre la mente, ma la tipizzazione aiuta lo scrittore.
Sto scrivendo un romanzo, che è in fase di rilettura. È ambientato in un bar, come se fosse una vetrina sul mondo. Mi sono ispirato a un detto di Montefiascone: stare alla balocca. Quando dopo una passeggiata ci si ferma al bar o su una panchina a vedere la gente che passa, e poi si commenta, inventa, racconta. Per i miei nonni era un appuntamento immancabile. Oggi guardiamo lo smartphone, ma nel mio romanzo, gli occhi sono ancora puntati su chi passa per strada.
In un mondo sempre più tecnologico, eppure la laurea in Lettere e la scuola Holden hanno portato lavoro
Sì e sono molto felice della realtà in cui lavoro. Alla Holden mi occupo di due aspetti: uno in entrata e uno in uscita. Quello in uscita è quello a cui mi dedico da più anni: Talent Hub, l’area in cui convergono tutte le proposte e le offerte destinate agli ex studenti della scuola. Il mio ruolo è quello di mettere in contatto offerta e domanda tra case editrici, case di produzione, agenzie di comunicazione ed ex studenti. Il ruolo più recente è nell’Academy, il percorso universitario di tre anni che è appena nato e di cui mi sono occupato, insieme ad uno splendido team, proprio della parte organizzativa. E’ stato molto faticoso e impegnativo perché per la Holden è stato un traguardo molto importante arrivato a 25 anni dalla nascita. Una grande sfida e anche una responsabilità, ma fa parte del gioco.
Scuola Holden, Alessandro Baricco, per gli amanti della scrittura è un mito…Sicuramente è un grande maestro ma quello che più apprezzo di lui è l’essere una persona che non si accontenta mai. Quando una cosa va bene lui la cambia perché non sopporta l’immobilità delle cose, andare avanti per inerzia è un concetto per lui inammissibile. Lo stesso Baricco si è sempre rimesso in gioco: dalla laurea in filosofia, a esperto di letteratura e musica in tv, per poi passare alla scrittura prima con i romanzi e ora nella saggistica con The Game. La Holden per me è una seconda casa, un posto dove potrei accomodarmi e rilassarmi, ma con Baricco questo pericolo non si corre. La sfida è continua.
Torino e Montefiascone, Adriano Pugno cosa mette nel piatto?
A Torino la famosa bagnacauda. Per me è stato odio e amore: è un po’ come quando scegli come vestirti per un matrimonio: devi decidere se indossare la tinta unita o un damascato. La bagnacauda è un damascato: non è per tutte le occasioni e non è per tutti. Ci vuole coraggio, per i giorni successivi continui a sudare aglio. Lo giuro.
Quando torno a casa, invece, non posso rinunciare al cinghiale. So di far inorridire i vegetariani, ma quel sapore verace e sanguigno non lo trovi dalle altre parti, e allora è veramente casa.