MESTIERI SEGRETI
L’OMBRELLAIO
Oggi appena piove sbucano fuori dal nulla i vucumprà con ombrelli usa e getta. Negli anni Quaranta-Cinquanta del secolo scorso con la pioggia in arrivo a Viterbo appariva invece l’ombrellaio. Portava a tracolla una cassettina di legno nella quale erano racchiusi tutti gli attrezzi del mestiere e i ricambi necessari: il trapano, qualche bacchetta, alcuni manici d‘osso finto, filo, colla, grappette di ferro, un po’ di stoffa (rigorosamente nera, impensabili gli ombrelli a colori). Per farsi sentire strillava “Ombrellaio donne. Piatti, ombrelli, concoline, ziri e schifetti da accomodar”. Le donne s’affacciavano sull’uscio di casa a contrattare le riparazioni di un ombrello, di un bacile, o di una brocca per l’acqua. Ne ricordo uno che percorreva lentamente viale IV Novembre ai Cappuccini dove abitavo. Era basso, malfatto, ironico, baffetti alla rinfusa, stuzzicadenti tra le labbra e spiccata cadenza napoletana con la quale riusciva a convincere le clienti che alla fine pagavano la riparazione forse più di un articolo nuovo. Noi ragazzi eravamo attratti dal trapano a trottola adoperato per fare i fori tra i due pezzi rotti o lesionati di piatti bacili e brocche di coccio necessari ad apporre la grappetta di ferro. Alcune stoviglie mostravano vecchie cicatrici che testimoniavano precedenti e approssimati interventi. Con la stessa tecnica provvedeva alla riparazione dello schifetto, una tavola rettangolare di castagno con bordi rialzati e convessi che le donne usavano per separare i cereali e i legumi dalla pula e le mosciarelle dalla buccia. Lo schifetto consunto dal tempo andava soggetto a spaccature e non si poteva buttare. Con la grappetta no problem.
IL MASTRO SCALPELLINO
Agli inizi del secolo scorso Alfredo Maggini, mastro scalpellino di Viterbo, eseguì la riproduzione fedele in scala ridotta della Fontana Grande che venne presentata all’Esposizione Universale di Roma del 1911 in occasione di 50 anni dell’Unità d’Italia. L’expo comprendeva più mostre in varie zone della capitale: piazza d’Armi, Valle Giulia, Terme di Diocleziano Castel Sant’Angelo e un’area in prossimità del Tevere. Dopo la manifestazione la fontana venne smontata e venduta ad un notaio di Roma che la custodì in un magazzino. Venne portata a Rodi – durante l’occupazione italiana tra il 1922 e il 1925 – dal viterbese Pietro Egidi che in quegli anni aveva nell’isola incarichi culturali e collocata nella piazza Eleftherias di Rodi, davanti al porto di Mandraki dove si trova tuttora. Va ricordato che alcuni secoli prima nel 1524 i Cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme (i “Cavalieri di Rodi”) esiliati dall’isola furono accolti a Viterbo e ospitati nella Rocca Albornoz. Alla chiesa dei SS. Faustino e Giovita hanno lasciato una copia della Madonna della Misericordia o del Fileremo. I Cavalieri restarono nella nostra città fino al 1527, quando partirono per Nizza e per Malta.
IL CANESTRARO
Occorrono le fruste giuste che si trovano nelle boscaglie o presso i corsi d’acqua. E soprattutto è richiesta una tecnica manuale che si apprende solo sul campo. Tra i “canestrari” mi viene in mente “Patacchino” alias Luigi Cutigni che abitava a Viterbo in contrada Ponte di Cetti. Era un’attrazione turistica. Si fermavano da lui per vederlo lavorare ed acquistare. C’era poi Zefferino che operava invece nel quartiere di Pianoscarano, sempre a Viterbo in via delle Caprarecce. Mi accorsi tardi di averne anche uno in famiglia, mio cognato, Ovidio Cima che nel capanno campestre presso Bagnaia, con vista Cimini, aveva attrezzato un piccolo laboratorio dotato degli attrezzi più incredibili alcuni creati con le sue mani. Mi confezionò un canestro, che ancora conservo, per i prodotti dell’orto, ed uno più piccolo per le fragole. Sempre a Bagnaia si faceva apprezzare anche Guido della Gasperina che addirittura lavorava su ordinazione, tanto erano le richieste. E nelle fiere di paese ce n’era sempre uno, che attirava attenzione e curiosità. La catena di montaggio è semplice. Si parte dalle fruste che si ottengono da vari ramoscelli di piante. Buoni il salice con rami lunghi e flessibili (che viene usato anche per le legature) e il nocciolo purché selvatico. L’olivo va bene per la resistenza. Abbastanza comune l’olmo, peraltro facile a procurarsi, i cui rami vanno però mondati dai getti non fruttiferi. Il giunco si trova a bordo dei ruscelli. E’ adatta la canna, purché dura, che va recisa con la luna calante. In genere le forme dei canestri sono circolari, a tronco di cono rovesciato, con o senza manico. Assumono i nomi più curiosi riferiti al loro impiego: capagno, capagnolo capagnone. Ideali per raccogliere funghi, nocciole, olive, castagne, e frutta, comprese le more selvatiche. Fra i più diffusi, il paniere sempre a disposizione in cucina, magari sulla madia. Al mercato di piazza del Gesù a Viterbo venivano utilizzate vere e proprie lettighe incannucciate per esporre le verdure gocciolanti, costantemente innaffiate per mantenerle sempre vive e fresche. L’acqua scollava in terra tra le maglie dell’intreccio. Il “fuscellone” a due manici veniva invece usato per contenere la legna presso la stufa o il camino.
IL BOTTARO
Uno l’ho conosciuto di persona. Si chiamava Idolando ed aveva la bottega a Bagnaia, presso Viterbo, un antro annerito dal fumo e dalla storia, subito dopo il passaggio a livello lungo la strada per Orte, nei pressi della galleria della ferrovia Roma-Nord che durante la guerra serviva come rifugio antiaereo. Insieme ad un amico che non c’è più, Sergio Grossi, lo andai a trovare per capire, imparare e fotografare. L’abilità stava nel piegare le toghe con una lunga preparazione a fuoco e di fissarle alla base prima di avvolgerle nei cerchi di ferro. Armamentario di attrezzi altamente funzionale: il “raschio” per pulire all’interno le botticelle e le “cupelle” (quelle più piccole), la “fallega”, una pialla per levigare la faccia concava delle doghe, la mazzuola, l’ascia curva, da carpentiere ed altro. In genere Idolando usava il castagno, legno abbastanza economico. Più raramente il rovere per lavori più costosi e meni richiesti. Va detto che in quei tempi non si badava tanto alla conservazione e alla qualità del vino di cui si faceva peraltro largo uso nell’arco della giornata, non solo durante i pasti. Pensiamo alle tante osterie in ogni quartiere di Viterbo e dintorni, luoghi di eterne discussioni davanti al tavolo della “beva” col mezzolitro, il mezzo-toscano e la carte unte e ricurve per tressette e briscola. Una stirpe di “bottari” si trovava a Canepina, poco distante da Viterbo, sui colli Cimini, dove esiste addirittura il vicolo dei Bottari. Fino a qualche anno fa vi si costruivano tini, botti e bigonci alcuni dei quali sono finiti nel locale museo delle tradizioni popolari. Questi vetusti contenitori che la muffa delle cantine rendeva biancastri e odorosi, venivano in tarda estate puliti presso le fontane delle piazze a suon di robusti risciacqui. Per immortalarne il rito che rallegrava gli angoli del quartiere di Pianoscarano a Viterbo, viene da anni riproposto il palio delle botti. Due manche: nella prima, la botte viene spinta fino in cima ad una ripida salita. Nella seconda, il concorrente la trasporta a spalla sullo stesso percorso, fino al traguardo.
L’ AUTORE*

Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.


























