«Viterbo città d’arte e di cultura», una definizione elevata, coniata a suo tempo da Italo Faldi, che tanta attenzione ha rivolto nel corso dei suoi studi alla pittura e agli artisti viterbesi di almeno cinque secoli, per parafrasare il titolo di una sua nota pubblicazione.
«Viterbo città d’arte e di cultura» è diventato poi l’adagio e lo slogan propagandistico brandito da tanti amministratori locali.
Il rischio è che si riduca a una frase ripetuta per abitudine, un’etichetta, un contenitore privato del suo contenuto.
Viterbo è la città dove i turisti varcano in auto Porta Faul, periodicamente colonizzata da erbe infestanti, parcheggiano e attraversano spazi verdi incolti, percorrono un tunnel di anonima bruttezza, giungono tramite ascensore a ridosso dell’ex Ospedale Grande degli Infermi, il cui complesso è auspicabile possa giovarsi quanto prima dell’ambizioso piano di riqualificazione presentato alla cittadinanza. Per il momento si apre di fronte allo sguardo del visitatore una serie di murature sbrecciate, porzioni intonacate ad libitum, finestre sprangate, tracce cospicue delle deiezioni lasciate dai piccioni. In ultimo il pubblico rimane folgorato dalla bellezza aristocratica del Palazzo dei papi, raffinata cortina loggiata verso la città e poderoso fortilizio verso valle. Compara il rinascimentale prospetto della cattedrale di San Lorenzo, affiancata dalla torre campanaria bicroma, con il contiguo palazzetto di Valentino della Pagnotta, che ne serra una quinta, e riesce a percepire, quale grandiosa città di peperino e pietra è Viterbo, incavata e scolpita nel masso, ingentilita dalle trine delle logge traforate, eretta per coerente anamorfosi dal sostrato litico di origine vulcanica. L’uso del termine pubblico non è casuale in quanto quella di piazza San Lorenzo è un’autentica scenografia architettonica, uno spettacolo che punge, al petto, esaltandolo.
Ci si stupisce, tuttavia, di come sia possibile che prima di ammirare la bellezza sia costretto a deplorare tanta bruttezza.
Viterbo, «città d’arte e di cultura», è anche il luogo dove si è ritenuto possibile ipotizzare la destinazione dell’ex complesso carmelitano dei Santi Giuseppe e Teresa, poi palazzo di giustizia, a mercato ortofrutticolo al coperto. Soltanto per ribadire la pregevolezza del complesso non sembra ozioso ricordare in questa sede che lavorò al suo completamento l’architetto Giovanni Battista Contini e Giovan Francesco Romanelli eseguì l’Annunciazione (ora al Museo Civico) per la cappella di famiglia, destinata a sua sepoltura. In aggiunta merita di essere ricordato che la Dormitio Virginis dipinta dal tardomanierista toscano Aurelio Lomi Gentileschi, attualmente conservata nel Palazzo dei Priori, ne decorava l’altare maggiore.
Auspicabile che la recente giornata di studi, svoltasi lo scorso 10 gennaio, abbia acceso i riflettori sul problema del recupero filologico e dell’altrettanto rispettoso impiego futuro. L’unica ipotesi praticabile in tal senso rimane l’adeguamento a spazio museale ed espositivo anche per manifestazioni temporanee.
Viterbo è anche la città dove permangono in condizioni precarie edifici storici di grande pregio come le ex scuderie della Rocca Albornoz, progettate a inizio Cinquecento da Donato Bramante, chiamato da papa Giulio II ad adeguare in quegli stessi anni le fattezze del fortilizio in un palazzo dotato di portici e loggiati all’antica.
Viterbo è la città dove Palazzo Calabresi, che reca uno dei rari esempi di facciata graffita – l’altro eclatante è quello delle ex scuderie di Palazzo Nini -, non ha visto compiersi l’auspicato restauro. Pertanto quella che è stata anche la residenza del pittore Pietro Vanni, rimane in stato di abbandono.
Non se la passano meglio altri ex edifici ecclesiastici. Improcrastinabile il completamento dei restauri all’ex basilica domenicana di Santa Maria in Gradi, nella sua struttura neo-berniniana e transizionale verso esiti neoclassici, delineata dal progetto settecentesco di Nicola Salvi.
Attende un recupero adeguato anche l’ex chiesa di Sant’Orsola, scrigno prezioso dell’estetica architettonica di Francesco Ruggeri (Ruggiero) il cui progetto fu scelto su indicazione dello stesso Salvi. I viterbesi ricordano ancora, per un verso, il furto dei dipinti che decoravano gli altari laterali occorso nel 2014, e per l’altro, il restauro dello stendardo esposto attualmente nella sala delle bandiere nel palazzo dei Priori, tuttavia quasi del tutto illeggibile per l’assenza di un’adeguata illuminazione.
A Viterbo, «città d’arte e di cultura», nobilitata da un Assessorato alla Bellezza, è stato infine possibile allestire esposizioni, anche all’interno di spazi pubblici, dove i supporti originali delle opere sono stati infilzati con le puntine da disegno, dove cartoncini acquarellati sono stati fermati ai pannelli espositivi con il nastro adesivo a vista che talvolta ha perso di adesione, dove i cartigli esplicativi degli apparati didattici sono stati redatti in libertà senza alcun rispetto delle norme redazionali invalse, o appoggiati in modo posticcio su quelli dell’esposizione permanente rimossa per la durata di quella temporanea, dove l’illuminazione era insufficiente, dove le strutture di sostegno, non tagliate a misura, sono state estese con aggiunte in polistirolo e colla a vista, dove nomi storicizzati internazionali sono stati affiancati a esponenti territoriali senza alcun nesso che potesse giustificarlo, dove la Pietà e il Cristo alla colonna di Sebastiano del Piombo, dipinti esiliati dalla loro collocazione di musealizzazione consolidata e spostati nel Museo dei Portici, sono stati introdotti dagli esiti della produzione di artefici contemporanei nel corso di mostre fortunatamente a scadenza.
Non è questa un’affermazione di intransigenza.
Il contemporaneo può e deve dialogare con l’antico e con il moderno, in considerazione del fatto che ogni opera nel momento in cui viene eseguita è contemporanea. Tuttavia secondo un progetto mirato, una motivata meditazione e un sentimento di profondo rispetto. Due soli esempi fra tutti, un allestimento stabile e una mostra temporanea: la Centrale Montemartini di Roma, che accoglie reperti archeologici di età classica, e la mostra Rinascimento elettronico di Bill Viola, allestita nel 2017 a Firenze in Palazzo Strozzi, dove il videoartista si confrontava con i capolavori del Cinquecento italiano.
Il Museo dei Portici allora dovrà essere dedicato, qualora deliberata l’opportunità di allestirvi esposizioni di durata limitata, esclusivamente a mostre che inneschino in forma dialettica e filologica rapporti di continuità con le due opere di Sebastiano Luciani. Avrebbe un senso, ad esempio, ripristinare in questa sede, il principio di analogia che caratterizzava i criteri adottati a suo tempo da Franco Minissi, estensore dell’allestimento del Civico, con la Pietà di Costantino di Iacopo Zelli, che testimoniava l’attecchimento presso un contesto ancora quattrocentesco delle scelte iconografiche adottate da Sebastiano.
Solo il consolidarsi di una cultura della conoscenza e del rispetto consentirà a Viterbo di compiere un percorso di affrancamento dall’ideologia del localismo posticcio e provvisorio. È quello che da viterbese auspico per la mia città e per i miei concittadini i quali, dimostrano, con l’attenzione nel seguire le variegate vicende di cronaca culturale, quanto stia loro a cuore la gestione della cosa pubblica.
*Dottore di ricerca in Memoria in materia di opere d’arte, studioso delle Committenze Nobiliari di età barocca.Scrittore.