Statuto di Viterbo anno 1251: il rafforzamento della milizia popolare

di Luciano Costantini

Alla metà del tredicesimo secolo Viterbo era diventata libero e fiorente Comune, dopo essersi sottratta dal pericolo costituito dall’imperatore Federico II e dopo aver conquistato una relativa autonomia dalla Chiesa, cui comunque restava politicamente legata. Uno status che doveva essere consolidato e difeso: contro tutti e contro tutto. Se necessario anche con le armi. Ecco allora il sistematico e progressivo rafforzamento della milizia popolare, cioè l’esercito, che si andò allestendo sulla base di precise regole, previste dallo Statuto del 1251. Vigeva la coscrizione obbligatoria: tutti i cittadini validi, in caso di necessità, diventavano fanti o cavalieri. Ai figli dei caduti in battaglia spettava una indennità che variava in base al servizio svolto dai genitori defunti e avevano il diritto a vedersi assegnate nuove armi se le vecchie fossero state perdute sul campo. L’armeria si trovava in uno dei locali annessi alla chiesa di San Sisto. Custodiva catapulte, trabocchi, balestre, manganelli oltre naturalmente a spade, pugnali e picche. Vigevano regole precise anche per iniziare la battaglia: vietato attaccare prima che si muovessero bandiere e gonfalone e lanciarsi oltre le linee indicate dai comandanti. Era proibito perfino gridare a squarciagola senza un ordine supremo. I fanti rappresentavano, ovviamente, il grosso dell’esercito cittadino, ma era la cavalleria l’arma in più, quella capace di indirizzare, nel bene e nel male, le sorti dello scontro. Chi poteva vantare il maggior numero di cavalieri aveva più chance di vincere. Ecco perché il cavallo era ritenuto una risorsa preziosa, da proteggere forse più dello stesso cavaliere. Quattro Connestabili, uno per quartiere, avevano il compito esclusivo di sorvegliare gli equini a disposizione della milizia che entravano a far parte della cavalleria cittadina soltanto al compimento del terzo anno di età. Gli stessi Connestabili erano incaricati di controllare e stimare il valore degli animali (non meno di 20 e non più di 40 lire ciascuno) di coloro che aspiravano ad entrare in cavalleria. Il cavallo era ritenuto un bene così pregiato per la collettività che il Comune in caso di morte dell’animale, per malattia o per cause di guerra, risarciva il legittimo proprietario in base alla stima fissata al momento dell’entrata nei ranghi cittadini. Di più, il cavallo veniva “visitato” già dal malaugurato momento in cui cominciava ad essere “maganiatum”. Se la malattia era colpa di sfortunati avvenimenti esso veniva preso in cura – in senso letterale – dall’amministrazione comunale che, tramite un veterinario, cercava di risanarlo nel giro di un mese, altrimenti scattava la vendita all’asta. Attenzione però, se la malattia era colpa esclusiva del cavaliere-padrone (per esempio, malnutrizione e maltrattamenti) questi era tenuto a pagare in toto le spese mediche e, se malauguratamente, l’animale moriva gli veniva risarcita soltanto la metà del prezzo di stima. E nel caso il disarcionato cavaliere volesse continuare a montare? Semplice, doveva trovare e acquistare un destriero entro il termine perentorio di un mese. Poteva accadere che il Comune esaurisse i fondi per mantenere e curare i cavalli, allora si procedeva a far scattare una tassa straordinaria “per ogni focolare”. Una sorta di tributo, una tantum, sul reddito familiare. Come in ogni guerra o battaglia c’erano (anche se non sempre) vincitori e vinti. E c’erano, di conseguenza, anche prigionieri da gestire. Una prerogativa che spettava esclusivamente al Comune per evitare possibili vendite o “dirottamenti” privati (50 lire di ammenda) da parte di chi li aveva catturati. Giustificare l’eventuale sparizione con presunte fughe non poteva costituire una scusante. Anzi, la mancata sorveglianza era punita con una pena pecuniaria stabilita, di volta in volta, dal Podestà. Un rigore che veniva osservato scrupolosamente anche per gli ostaggi, tipico strumento di scambio di quell’epoca. Nessuno di loro poteva essere rilasciato se prima non fossero stati onorati i patti precedentemente sottoscritti. Una regola ferrea – formalizzata in un giuramento collettivo – che impegnava podestà, balivi, giudici, consiglieri e popolo tutto. Anche questo rientrava nel prezzo della pace.

Foto:Post Ludika 1243

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