Pier Isa della Rupe e il libro Streghe

VIAGGIO ASTRALE
Erano giorni che la febbre mi intrecciava i capelli e stavo male.
Quella notte era ancora buio, il verso del gufo echeggiava dal bosco oltre la Rupe delle Ninfee. Nell’ora che la lumaca senza casa esce dal suo nascondiglio per scivolare nuda sulle statue nude del parco e la Luna è solo a metà della sua corsa, dentro di me provavo un insopportabile desiderio di fuggire, fuggire dal dolore e da me stessa. Ma come, dove, quando?
Rannicchiata nel mio letto ascoltavo nascere l’erba nel rumore del mondo e mi sentivo come un pulcino sbalzato fuori dal guscio. Con la mano sudata allontanai i capelli dal volto spingendoli lontano dalla fronte poi restai a lungo con il braccio a lato della faccia. All’improvviso mi resi conto della stranezza di quella postura, era come se volessi liberarmi da un involucro inutile: quel guscio d’uovo primordiale che era il mio corpo… Non saprei dire esattamente come mi sentivo e cosa volevo ma ero dentro un immenso mistero, come una foglia caduta a mezzanotte nel cuore della foresta, volevo a ogni costo allontanarmi dal ramo e fuggire sonnambula nell’aria e nella Luce.
Fuggire leggera!
Seguendo il mio istinto presi la treccia e la portai sul petto, quel gesto semplice e antico della mano, mi riportò alla mente una scena sepolta nella memoria: il cartiglio preparatorio per l’affresco della Creazione dove per la prima volta ho dipinto la mano di Dio che fluida aleggiava sul caotico nulla, ma forse… forse non sono stata io a dipingerlo, quel quadro…
E tuttavia nonostante il delirio della febbre che mi fa vedere tutto con occhi torbidi, di una cosa sono certa, nei ricordi più lontani della mia infanzia non ci sono dolci ninne nanne né fiabe con principi e regine. Non ricordo l’odore della campagna appena arata col miracolo del giglio selvaggio che si apre come un calice di neve e neanche ricordo, se mai ci sono stati, i giochi mitici della fanciullezza.
Erano gli anni bui del dopo guerra a malapena sapevo camminare, ero tutta ossa e pochi capelli spinosi. Nella prigione solitaria della mia stanza come un falco in gabbia, mi allungavo inquieta dietro la finestra, afferravo lo spigolo della soglia e con occhi sgranati guardavo fuori. Dietro i vetri appannati dal mio respiro c’era un’antica conceria di pelli.
Non ero ancora nata quando una bomba ha scoperchiato il tetto, sbrecciato e scaricato parte delle mura. Alcune di quelle rozze pietre estratte col piccone dalla cava e poi incastrate tra loro alla maniera preistorica da giganti che vi posero mano, erano rimasti in piedi testimoni silenti di tanto orrore. A me bambina quel castello di sassi sopra i quali volteggiavano falchi, quella cinta di ruderi nido di corvi e del passero solitario, bombardati, smembrati, scorticati, dove crescevano fichi e olivi selvatici, parevano merli di una torre senza doccioni e senza campane, mi attiravano come se le antiche pietre avessero occhi, mani, labbra per parlare, guardare, sentire e sempre mi chiedevo se anche loro, come me, avessero il terrore delle ombre, se oltre la paura avessero anche fame, sete, freddo. Così senza volerlo ero sempre avanti la finestra a guardarle. Mentre li contemplavo sognavo di trasvolare come una rondine e andare finalmente al di là soprattutto perché tra una pietra e l’altra oltre a vedere i campi di grano dove i casali abbandonati emergevano come scogli nel mare, intravedevo la cresta della famosa catena dei monti Cimini: la Palanzana con il suo monastero in rovina, il Monte delle Ginestre, Roccaltia, Montecchio e la sua Piana Sacra e altre montagne ancora che si innalzavano azzurre evanescenti piene di leggenda e sogno, ognuna col suo bosco antico fitto di magia e tenebre, mentre tutte ma proprio tutte oltre a inchiodare a terra il vento e la malaria, tentavano disperatamente di raggiungere il cielo. Quelle montagne accesero la mia fantasia, soprattutto la sera quando il sole scompariva dietro la loro gobba mentre contemplavo il bacio spettrale del tramonto che le incendiava, immaginavo di camminare al buio nei dirupi, nelle profonde gole e mentre ascoltavo il canto delle stelle e i sospiri della Luna, sempre mi chiedevo: cosa ci sarà oltre quei boschi, chi ci abita, chi ci vive, chi? C’era uno scambio continuo di doni tra me e quelle montagne: io trasformavo ogni albero, ogni insetto, ogni foglia in mille occhi che mi fissavano nelle tenebre e quei monti a loro volta mi restituivano il dono mostrandomi il sentiero senza fine per arrivare alle stelle. Così quando nel cuore della notte mi svegliavo di soprassalto tormentata da incubi e visioni, a svegliarmi era quasi sempre il singhiozzo stridulo della notturna civetta, andavo alla finestra, guardavo oltre i merli della mia torre personale e con quel grido misterioso che l’eco faceva uscire da un immenso fiume di tenebre, iniziavano le mie apparizioni. Entravo nel mondo infinito delle profezie, dei sogni che dormono dentro di noi, il mondo dei misteri, delle passioni delle farneticazioni, un mondo che ci attraversa come un soffio d’aria gelida riportando a galla altre vite. Con quel soffio affioravano in me i ricordi di come ero una volta quando ancora non esistevo, ricordi meravigliosi e terribili. ..

Dal libro STREGHE (pubblisfera edizioni)
(in tutte le librerie a Viterbo e online)

Pier Isa della Rupe

PROLOGO

Quando nell’incanto selvaggio delle notti d’estate mi sento in petto l’usignolo con la sua melodia e il falco pellegrino con le sue grida stridule e dimentico, come a volte dimentico, che non ho ali per volare, grandi ali azzurre per volare sui monti, sui fiumi, sugli olivi, quando mi sento incatenata in questa gabbia, straniera in terra straniera assieme a gente straniera, estranea persino a me stessa e non so dove poggiare il capo, scrivo il mio nome sulle sponde del nulla, il vento lo porta via, attraversa a guado il fosso della Rupe delle Ninfee per poi volare dal deserto al mio nido di roccia tra le nuvole e dalle nuvole alle stelle dove in mondi antichi vestivo di bisso e di nebbia.

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