Per il trigesimo della morte di Matubbar
Premetto per non essere frainteso da chi non mi conosce e non segue tutto quello che scrivo e dico. L’dea proposta dal sindacato UILA di depositare un fiore dove questo giovane bengalese ha deciso di terminare una vita che qui sperava di incontrare, mi è sembrata di una delicatezza infinita.
Questo mio contributo alla nostra riflessione è portare questa delicatezza sulle strade della storia e della vita di tanti. Se, come giustamente detto, è una vittima del contesto sociale, sia di partenza che di arrivo, vorrei piantare dei fiori su questo contesto. Altrimenti ci fermiamo a piangere i morti e poi? Ci sono altri fiori da portare. Debbo ricordare la nostra “Rosa” che nei fiori aveva nascosto del pane per sfamare chi aveva fame? Facciamo rivivere i miracoli e non solo ricordarli nelle devozioni. E allargo il mio pensiero alla storia di questo giovane venuto dal Bangladesh alla ricerca di cammini di vita. Se date uno sguardo alla posizione geografica del suo paese, sembra venga abbracciato dalla grande India, nazione in emergenza e certamente con un futuro brillante nel quadro internazionale. Non lontano da Dhaka (o: Dacca), la capitale, a circa 450 chilometri c’è Calcutta, la patria del poeta che scrisse anche l’inno nazionale del Bangladesh (Amara sonara Bamla), Rabindranah Tagore. Nella sua casa museo in una delle stanze c’è il testo dell’inno che a Matubbar ricordava il suo paese. Immagino Tagore accanto a questo giovane con una delle sue poesie: “… concedi che io possa sedere per un momento al tuo fianco… le opere a cui sto attendendo potrò finirle domani…Ora è tempo di sedere tranquilli, a faccia a faccia con te…”. Sediamoci accanto a questo volto triste e solo. Come possiamo abbracciarlo, non con i fiori, ma con una presenza presente? E quel tugurio in via Fontanella del Suffragio, dove “abitava” domandandosi forse: ma dove sono? Nessuno di noi, io almeno no, ci siamo resi conto di questa solitudine. E quante vie ”Fontanelle del Suffragio” potrebbero esserci accanto a noi, alle nostre chiese dove andiamo a pregare l’amore di Dio, nei nostri comuni che poi deprecheranno l’accaduto sui giornali?… Dove sono io? Dove siamo noi? C’è tanta gente che ha bisogno di “pane” per vivere, non di fiori dopo la morte. E “pane” vuol dire: attenzione, occhi aperti, accoglienza, salutare e sorridere, parrocchie aperte e sindacati attenti (e ce ne sono). “PANE” significa “PRESENZA”. Presto la macchina di santa Rosa porterà per le strade il volto della nostra “santa” e il suo “cuore” passerà in processione. Non sarebbe il caso che ognuno che può faccia una processione per vedere come vivono tanti nostri fratelli e sorelle? Scusate il volo semi poetico: dobbiamo portare il nostro cuore nelle case e nelle strade. Apriamo il grembiule di attenzione umana e facciamo volare il profumo della carità vera che è fatta anche di sorrisi, di saluto, di sguardi… Accanto al fiore che porteremo per questo giovane, fermiamoci un attimo e diciamoci: cosa possiamo fare? Almeno ognuno di noi apra gli occhi attorno a dove abita. E quando Qualcuno ci chiederà: “Dov’è tuo fratello (o sorella)…” speriamo di avere una risposta.