Le Case della Vita. Via Romagnosi e il ricordo di Lorenzo

di Maria Letizia Casciani

LA CASA DI VIA ROMAGNOSI

LORENZO

Ho avuto la fortuna di avere due suoceri meravigliosi. Di lei, ho già raccontato molto, ma di lui – Lorenzo – ho parlato poco.

Era una persona molto particolare, un personaggio di altri tempi, per così dire.

Capelli nero corvino e riccioluti, (che lui, ogni sera, prima di andare a dormire, sigillava dentro una rete, scatenando le mie risate) due occhi vivacissimi, pronti – come quelli di Zeus – a fulminare chiunque lo avesse importunato. Una risata indimenticabile.

Nelle persone amava soprattutto il rispetto delle regole. Detestava i maleducati e quelli che usavano le parole a sproposito.

Era caratterizzato da un temperamento quasi saturnino: nella maggior parte delle giornate era una persona gioviale, amabile, piena di senso dell’umorismo, pronta alla battuta, magari sardonica, a volte, ma quasi sempre benevolmente innocua. 

C’erano poi dei giorni – rari, in verità, frequenti come possono esserlo le congiunzioni astrali – in cui chiunque lo conoscesse a sufficienza, capiva al primo sguardo che la tattica migliore e più conveniente era quella di stare alla larga da lui. 

In caso contrario, non solo il malcapitato avrebbe dovuto sorbirsi dei silenzi stizziti, ma avrebbe anche fatto da parafulmine alle sue rabbie. Meglio non rischiare, dunque. Mai.

Era fatto così: adorabile, ma non nelle sue giornatacce, durante le quali preferiva essere ignorato e rimanersene in silenzio nei suoi angoletti, che nessuno, con un po’ di sale in zucca, doveva arrischiarsi ad invadere.

Era indispensabile essergli simpatici, perché, essendo un po’ manicheo, egli divideva l’universo tra le persone che trovava simpatiche e quelle che detestava. Mentre era facilissimo passare dal primo gruppo al secondo, risultava invece impossibile per chiunque fare il percorso inverso.

Se trovava insopportabile qualcuno – fosse stato anche un congiunto – non finiva mai di indirizzargli frecciate e battutine, che spesso condivideva a mezza bocca con il suo cane, senza farsi troppo sentire.

Aveva sempre avuto un cane accanto a sé e – nel periodo in cui lo frequentai – c’era un fox terrier di nome Tobia, che lo seguiva come un’ombra, anche in camera da letto, anche in bagno.

Amava coccolare e viziare quelle bestiole con grande tenerezza ed erano forse gli unici esseri viventi ai quali concedeva un affetto esplicito ed illimitato. Gli unici al riparo dalle sue rabbie epiche.

Tobia era un cane – anche lui – molto nervoso ed irritabile, capace però, proprio come il suo padrone, di grande espansività con chi fosse entrato nelle sue grazie. In questo, si erano modellati a vicenda.

Io e Lorenzo andammo sempre d’amore e d’accordo e dunque fui molto fortunata. 

Forse accadde perché non mi lasciai mai troppo intimidire dalla scorza dura di quell’uomo, che io trovavo irresistibile e divertente. 

Mi facevano sempre ridere le sue battute argute, a volte sottilissime, e – in virtù anche della mia collocazione a tavola, sempre al suo fianco – godevo anche del privilegio di ascoltare in diretta i suoi strali, sussurrati a Tobia, con la convinzione di non essere sentito e compreso da nessun altro. 

Egli, forse, da parte sua  apprezzava il mio spirito libero, perché, a volte, mi mettevo a discutere con lui, di libri, o di politica, e non mi preoccupavo troppo di trovarmi in disaccordo con il suo pensiero.

“Sei una sagoma!” – mi diceva spesso, scoppiando a ridere e scuotendo quella sua testa riccioluta.

Era un eccellente pittore. 

Aveva dipinto per quasi tutta la sua vita, ma, da quando si era ritirato in campagna, subito dopo la pensione, questa sua passione aveva preso il sopravvento su tutto il resto.

In quella casa c’era un enorme giardino ed in un angolo aveva fatto costruire un atelier, che era il suo rifugio, durante le giornate positive, ma lo diventava soprattutto in quei momenti in cui il suo “cupio dissolvi” lo travolgeva e diventava per questo intrattabile.

Quando io e l’Uomo coi baffi arrivavamo in macchina e percorrevamo il breve viale alberato che portava in giardino, quasi sempre egli usciva dallo studio e ci accoglieva tenendo ancora in mano il pennello o il tampone che utilizzava quando dipingeva ad olio.

Era un appassionato conoscitore degli impressionisti e trascorreva parte del suo tempo a riprodurne le opere, in particolare quelle di Monet e di Renoir.

La sua vena creativa dava il meglio negli acquerelli: piccoli paesaggi, dai colori magnifici, resi in modo impeccabile. 

Non si separava mai dai suoi quadri, che occupavano dal pavimento al soffitto tutte le pareti di casa, bagno compreso. Non amava regalarli – cosa che accadeva davvero di rado – e non sopportava nemmeno che qualcuno osasse chiederglieli. 

In questo senso fui fortunata, perché non solo ebbi l’onore di un ritratto da parte sua, ma mi regalò una stupenda riproduzione de “Il ponte di Argenteuil” di Monet, insieme a tre dei suoi acquerelli, permettendomi addirittura di sceglierli.

Quello che amo di più ritrae una parte del giardino della casa di campagna. 

Al centro c’è il grande ulivo che dominava il giardino e sul quale d’estate Lorenzo amava appendere un grande uovo di vimini, aperto davanti, dentro cui amava rannicchiarsi dondolando, con i suoi occhiali da lettura in punta di naso, per risolvere le parole crociate de La settimana enigmistica.

Quest’uomo, la sua risata, la rete in cui avvolgeva di notte i suoi riccioli, i suoi quadri, le sue piccole e grandi ubbie, il grande affetto che, a modo suo, ha avuto per me, sempre: tutto questo è ancora presente e ben radicato nel mio cuore.

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