Le case della vita Via dell’Orticello. Ti senti all’altezza?

Maria Letizia Casciani

Non avevo ancora quindici anni e iniziava la mia nuova vita da liceale. Liceo classico, IV ginnasio, sezione A.
La piccola città in cui cominciai a frequentare la scuola si trovava a circa venti chilometri dal mio paese. Era una cittadina antica, dalla lunga, illustre, storia (che risaliva fino agli etruschi ed ai romani), un luogo che io conoscevo poco ed avevo frequentato ancor meno fino a quel momento.
Io e mia sorella, che era ormai all’ultimo anno del liceo scientifico, prendevamo tutte le mattine in piazza l’autobus delle sette e venti, l’unico della giornata, come l’unico della giornata sarebbe stato quello del ritorno; quella città era decisamente mal collegata con il paese: tornavamo a casa intorno alle due e mezza, stanche ed affamate.
Ogni mattina il nostro risveglio era alquanto brusco: mia madre irrompeva nella nostra stanza, spalancando la porta, senza buongiorno, senza preavviso e senza tanti complimenti, accendeva la luce e si limitava a dire: “E’ ora!”, quindi richiudeva, lasciando accesa la luce.
Io e mia sorella uscivamo intorpidite da quel guscio tiepido che era stato fino a quel momento il nostro letto, entravamo di corsa nel bagno privo di riscaldamento, ci lavavamo a tempo di record con l’acqua fredda, facevamo un rapido passaggio in cucina per la colazione e, presi i libri, ci affrettavamo verso la piazza, dove avremmo preso l’autobus, che arrivava alle sette e venti da un paese poco lontano.
A quell’ora del mattino, alla partenza, il pullman era semivuoto, ma – più o meno a metà del percorso – sostavamo in un punto dove c’era poco più di una manciata di case, che appartenevano ad una frazione della città vicina. E lì finiva la pace, perché si riempivano di colpo tutti i posti.
Già alla partenza dal paese – io, la mia compagna di classe, mia sorella ed una sua amica – ci eravamo disposte a sedere in modo strategico, così da non lasciare spazio ad estranei che volessero stare accanto a noi, ma quasi sempre ogni accorgimento si rivelava insufficiente.
Dalla piazza di quella minuscola frazione saliva un’umanità invadente e ciarliera, da cui noi ragazze ci dissociavamo volentieri, perché la giudicavamo rozza e maleducata.
Queste persone salivano e si sistemavano, chiamandosi tra di loro ad alta voce, si accomodavano senza tanti complimenti, senza nemmeno chiedere se il posto fosse libero. Tra di loro c’erano molte donne di mezza età, che andavano a lavorare come colf in città, nelle case dei ricchi. Le detestavamo a morte, perché rumorosissime, ed evitavamo ad ogni costo di averle sedute accanto, perché il loro alito sapeva spesso di aglio e le loro mani avevano un perenne sentore di candeggina e piatti rigovernati.
C’erano poi alcune vecchiette che il giovedì ed il sabato portavano al mercato galline starnazzanti, tenendole a testa in giù per le zampe, come Renzo coi capponi. Quei poveri animali ogni tanto riuscivano a liberarsi e scappavano, correndo a rifugiarsi velocissimi sotto i sedili, svuotando nel frattempo i loro intestini lungo il corridoio, nell’ilarità generale.
La parte posteriore del pullman era colonizzata da adolescenti e ragazzotti – più o meno della nostra età – dai modi di fare irruenti e poco rispettosi; in genere li guardavamo dall’alto in basso e scoraggiavamo senza appello qualsiasi forma di contatto.
Il nostro sussiego e la nostra spocchia erano con ogni probabilità fuori luogo, sia perché si trattava di una chiara forma di difesa, sia perché anche noi, semplici ragazze di paese, agli occhi di quelli di città, avevamo di certo l’aspetto di gente poco raffinata.
Stordite da tutto quel vociare, io, mia sorella e la mia compagna di classe di una vita, ci sbrigavamo a scendere dal pullman, per correre a scuola, camminando in silenzio per le strade cittadine, che, di mattina presto, specie d’inverno, erano spesso bagnate e rese scivolose dall’umidità che arrivava dal fiume che si trovava giù a valle.
Fu di sicuro una nemesi, una punizione divina per la spocchia che dimostravo durante i viaggi sull’autobus, ma in quella scuola, in quella nuova classe, provai, soprattutto all’inizio, un brutto senso di inadeguatezza, mi sentii, specie nelle prime settimane, come fuori fuoco, fuori posto, seduta in bilico sullo strapuntino dell’ultimo gradino della scala sociale.
In questo senso già durante il primo giorno di scuola ricavai un’impressione precisa e decisiva: i compagni sembravano tutti molto simpatici, ma uno mi colpì in modo particolare, a tal punto che quel giorno stesso, tornata a casa, chiesi alla mamma di farmi cambiare scuola e di iscrivermi al Segretaria d’Azienda.
Non solo questo ragazzo – come tutti noi – conosceva già bene il latino, ma aveva studiato per conto suo il greco, parlava correntemente il tedesco ed il russo, sapeva dire la sua su un mucchio di argomenti che per me erano assolutamente nuovi e sconosciuti. Addio, competizione!
Nelle prime settimane mi ritrovai ad essere un po’ presa in giro dai compagni perché avevo l’abitudine di rivolgermi ai professori dando loro del “voi”, come usava on paese, invece di usare il “lei”, decisamente più “cittadino”. Mi adattai velocemente alla novità, in questa, come in molte altre cose.
I compagni venivano quasi tutti da famiglie di medici, di avvocati, di industriali, andavano a sciare, erano abbonati alla stagione del teatro comunale, conoscevano la musica classica, frequentavano regolarmente la libreria del Corso, dove avevano conti aperti che consentivano loro di acquistare moltissimi libri ogni mese. Una compagna dai lunghi capelli biondi andava ogni settimana dal parrucchiere a farsi la messa in piega, vestiva già con una forma di eleganza adulta e raffinata, portava scarpe e borsa abbinate, indossava abiti cuciti su misura da una sarta, con tessuti che – si vedeva lontano un chilometro – erano molto pregiati.
In classe i compagni sembravano tutti molto rilassati ed amichevoli tra di loro, anche perché si erano già da tempo creati legami per il fatto di avere frequentato insieme le elementari o le medie.
L’incontro con questo nuovo ambiente mi mise inizialmente a disagio e anche per questo – già alla fine del primo giorno di scuola – avevo implorato mia madre di iscrivermi da un’altra parte. Non le sarò mai abbastanza grata per avermi indotto a riflettere e per aver contenuto la mia ansia. Continuai dunque a frequentare il liceo e, col tempo, imparai a fare mie molte di quelle novità, ad apprezzare stili di vita diversi e punti di vista mai sperimentati prima. Il paguro Bernardo stava sperimentando un nuovo guscio e riuscì, piano piano, ad uscire dal vecchio e ad adattarsi a quello più nuovo e funzionale.

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