Hortae Felix, il racconto a otto mani per il concorso Tuscia Libris.

Il racconto Hortae Felix è stato ideato da quattro teste e scritto da otto mani, quelle di Donatella Agostini, Nadia Proietti, Carolina Trenta, Viola Vagnoni, le artefici di Raccontiamo Viterbo.Buona lettura.

Hortae Felix

“Uno, due e tre, fante cavallo e re…”.
Il salto a piedi pari portò la piccola Lucia vicino alla colonnina di pietra, posta ai piedi di santa Maria Assunta. Tutti i giorni, dopo la scuola, giocava sui gradini di travertino della cattedrale di Orte, sorvegliata a distanza dal nonno; amava guardare le auto che andavano verso la Rocca. Le piaceva la compagnia degli altri bambini, ma non avrebbe mai rinunciato ai momenti in cui rimaneva sola con se stessa e con i personaggi colorati della sua fantasia.
Quella mattina Lucia sentiva dentro una strana inquietudine, e con la sua semplice mente di bambina stabilì che dovesse essere fame. Immaginando le delizie di un cornetto alla panna, tornò ancora una volta al terzo gradino e poi, guardando in direzione del nonno, quasi volesse il suo tacito assenso, saltò di nuovo. In quel momento la sua attenzione venne attratta da un libricino inserito tra le colonnine bianche. Sembrava essere stato messo lì con cura.
Lucia si guardò attorno. Nessun altro bambino nelle vicinanze. Accanto al bancomat, seduta su un cubo di pietra, un’anziana signora era intenta a guardare lo schermo del suo cellulare. Più in là due cani sonnecchiavano beati, godendosi il primo sole d’aprile. Chi avrebbe mai potuto lasciare quel libro proprio lì?
Sapeva bene che non doveva toccare le cose degli altri, ma la curiosità prevalse sui buoni intendimenti. Si avvicinò il più possibile, strisciando sul gradino con fare circospetto. Il nonno nel frattempo aveva iniziato a parlare con un altro uomo, forse di calcio o di politica, lo faceva sempre!
Con una mossa rapida afferrò il libro: non aveva la copertina colorata come quelli che aveva lei a casa, ma era ruvido e marrone. Lo avvicinò al naso e sentì un odore forte: le ricordava quello delle scarpe che la nonna indossava per andare a messa. Non conteneva nemmeno figure, e la scrittura era diversa da quelle che lei conosceva. Per un attimo perse interesse per quell’oggetto, e lo posò aperto sul gradino. Fu allora che le pagine ingiallite iniziarono a sfogliarsi da sole. Che strano, pensò, non tirava un alito di vento. Guardò ancora una volta il libro e lesse il titolo: “Hortae Felix”. Lucia non riuscì più a trattenersi e cominciò a leggere.

«❜era una volta, al tempo delle streghe, dei principi e dei castelli, una cittadina chiamata Orte, incastonata nel verde e allietata dallo scrosciare delle innumerevoli sorgenti d’acqua che la circondavano. La prosperità regnava sulla popolazione, che si dedicava ai mestieri e al lavoro della terra.
Tuttavia, come in ogni grande storia che si rispetti, ben presto la pace di questo locus amoenus venne brutalmente interrotta. Il terribile flagello della peste si abbatté sulla cittadina ed iniziò a mietere vittime ovunque, senza distinzioni: morivano il principe e il contadino, la nobildonna e la popolana, il nonno ed il nipotino. Le botteghe erano desolatamente vuote e i frutti della terra seccavano nei campi, senza più nessuno che li raccogliesse. Ogni rimedio tentato sembrava essere vano.
Gli ortani, ormai decimati e sull’orlo della fame, decisero allora di chiedere consiglio ad una anziana donna in odor di stregoneria: si vociferava infatti che ella fosse in grado di preparare filtri molto potenti e di lanciare sortilegi assai efficaci.
In un giorno in cui il sole splendeva alto nel cielo, cinque giovani uomini partirono dunque alla volta della dimora della megera. Il suo antro era situato in un luogo remoto e quasi inaccessibile, che la Sibilla (questo il nome con cui era conosciuta) aveva scelto per proteggersi dal pericolo di essere un giorno o l’altro cacciata e bruciata sul rogo.
Dopo una cavalcata di diverse ore, la comitiva giunse a destinazione: al limitare del bosco, in una grotta in cui la luce faticava ad entrare, Sibilla sedeva rimestando un pentolone sul fuoco. Alla vista degli sconosciuti, la vecchia si alzò intimando loro di non avvicinarsi. Intimoriti, gli uomini la implorarono di ascoltarli. Dopo che essi ebbero spiegato la situazione, Sibilla così si pronunciò:

“Se il flagello volete fermare
un solo gesto è possibile fare.
Tra le vostre nobili anime dovete guardare
e la più innocente e bella agli dei consacrare.
Il suo sangue bisogna immolare,
solo così l’ira divina si potrà placare.”

Sconvolti da quelle parole, i giovani rimontarono a cavallo e nella notte fecero ritorno alla cittadina. Nessuno osò proferire parola durante il viaggio, ma tutti avevano in mente soltanto un nome: Bertrada de’ Vincitori. La fanciulla sedicenne era la bellissima figlia di uno dei signorotti del posto. Aveva una corporatura esile e delicata, lunghi capelli biondi e innocenti occhi cristallini del colore del cielo. Era lei l’anima bella e nobile da sacrificare.
Quando, all’alba del nuovo giorno, il popolo si radunò sulla piazza principale e ascoltò il responso della strega, il caos dilagò improvvisamente. Quello stesso pensiero taciturno che si era insidiato nella notte nella mente dei cinque viaggiatori esplose con violenza sulla bocca degli ortani: “A morte Bertrada! A morte!”.
La fanciulla venne prelevata con violenza dal suo palazzo e portata in catene dinanzi alla folla radunata sulla piazza: sarebbe stata svenata, offrendo un macabro spettacolo che, piuttosto che orrore, avrebbe suscitato grande sollievo nei presenti per l’imminente fine della pestilenza.
Di fronte a quell’efferato verdetto, Bertrada e i suoi familiari si dibattevano con violenza e piangevano disperati, nella speranza di suscitare compassione nell’animo dei loro concittadini, ma nessuno sembrava aver pietà di loro.
Soltanto Damaso, il vecchio vescovo di Orte, cieco ma non sordo, dopo aver udito le grida disperate della giovane, decise di accorrere per fermare quell’assurdo supplizio. Come a farle scudo, il venerabile vecchio si prostrò a terra tra la folla invasata e Bertrada. Pianse, implorò il suo popolo di non compiere quell’insensato e macabro sacrificio, ma invano. Gli ortani piuttosto, inferociti per quell’ulteriore perdita di tempo, si scagliarono contro di lui con i loro bastoni e lo massacrarono senza pietà; ormai non c’era davvero più nulla da fare.
Il sangue del vescovo Damaso fluì tra i sanpietrini della piazza, in rivoli vermigli e brillanti sotto il sole del mattino, che splendeva lontano e inconsapevole delle miserie del mondo. La ressa, accecata dalla disperazione e dalla paura, calpestò quell’uomo santo e morente sulle pietre della sua città.
Un bambino, spintonato dalla folla, inciampò sopra il suo corpo inerte e ritrovandosi imbrattato di sangue iniziò ad urlare come un ossesso. Uno di quegli urli carichi di dolore e di ribrezzo, che scuotono i sogni futuri di coloro i quali hanno avuto la sventura di udirli. Soltanto in quel momento la piazza intera sembrò riaversi da quel maligno incantesimo, e realizzare l’enormità di quanto aveva commesso. Scese un silenzio irreale, interrotto soltanto a tratti dai singhiozzi di coloro che non riuscivano a trattenere le lacrime, e dalle sommesse preghiere della povera Bertrada, ancora abbandonata in catene sul sagrato della chiesa, in attesa del suo destino. Nessuno la degnava più di uno sguardo, tutti presi a macerarsi nella realizzazione del male fatto e ipnotizzati dal macabro spettacolo della chiazza scarlatta, che ormai si allargava sotto la veste talare del vescovo trucidato.
Fu in quel momento che accaddero contemporaneamente due eventi di straordinaria portata, e nessuno in seguito ne seppe dare una spiegazione convincente.
Mentre gli ortani contemplavano il corpo senza vita del venerabile Damaso, Bertrada svanì. Cessarono improvvisamente le sue preghiere, i singhiozzi ed i pianti. Semplicemente la ragazza svanì dal sagrato, e nessuno la rivide più. Si disse in seguito che un cavaliere straniero aveva approfittato del momento propizio per salvarla e portarla con sé, lontana per sempre dai suoi feroci concittadini.
Il secondo evento fu ancora più strabiliante del primo: la peste smise di divampare nel piccolo paese. Le vie e le piazzette si ripopolarono, e la pace e la prosperità tornarono lentamente ad Orte. I sopravvissuti non riuscivano a spiegarne il motivo: come poteva l’ira divina essersi placata, se il sacrificio richiesto non era più avvenuto?
Fu il più sveglio dei cinque che si erano recati dalla Sibilla a trovare una risposta: la bellezza e la nobiltà richieste alla vittima sacrificale non dovevano essere qualità concrete, tangibili. Anzi, il contrario! Probabilmente il sacrificio stesso di Bertrada non avrebbe sortito effetto alcuno. Ciò che invece era stato richiesto era purezza d’animo, bontà d’intenti, amore per il prossimo. Era stato il vescovo Damaso a dimostrare tutto questo, immolandosi pur di salvare quell’innocente. Il sangue che aveva mondato le colpe umane era comunque stato versato».
Il racconto finiva così. Lucia lo aveva letto avidamente, assorbendolo come una spugna gettata in acqua. Le parole, vergate con quella strana calligrafia, narravano di un mondo molto diverso da quello che lei conosceva. Un mondo in cui l’ombra scura della superstizione e della crudeltà si alternava alla luce calda di anime elette e superiori, che con il loro esempio riuscivano a rischiarare il buio e a mettere in fuga il male. Quel giorno Lucia comprese che la vita poteva essere davvero crudele, e che i suoi amati nonni non l’avrebbero potuta proteggere per sempre dalla bruttezza e dalla meschinità del mondo. E capì che doveva trovare dentro di sé gli strumenti per potersi difendere da sola. Ripose il libricino accanto alla colonnina, nel punto in cui lo aveva trovato.
“Lucia!!” sentì la voce del nonno chiamarla. “Lucia! Vieni giù che la nonna ci sta aspettando”. Lucia fece per andare dal nonno, ma volle dare un’ultima occhiata a quello strano libro. Si voltò, ma accanto alla colonnina non c’era più nulla.
La bimba corse a perdifiato dal suo amato nonno e poi insieme tornarono a casa, dove li aspettavano i piatti prelibati che la nonna aveva preparato.
Quella notte l’abitato di Orte vecchia riluceva sotto la luna piena, come uno scrigno di gioielli dimenticati. Lucia si era appena coricata, quando le parve di udire dei bisbigli, leggeri e indistinti, provenire da fuori la finestra. Si alzò e socchiudendo guardinga le imposte, udì una voce remota proferire: «Il vescovo da qui ti benedice, Orte felice!». Non seppe mai con certezza chi fosse a parlare, anche se a Lucia piacque immaginare la nobile figura di un vecchio, con la barba bianca e l’abito talare, che vegliava da secoli sul paesino. Avrebbe avuto occasione di sentire quella voce per molti altri anni a venire.

Foto Orte dalla Rocca autore Antonio1950

Hortae Felix è incluso nella Antologia del Premio TUSCIA LIBRIS edita da Della Rocca Editore acquistabile sul sul sitowww.tusciaapezzetti.it/prodotto/tuscia-libris-antologia/

 

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