La trovate insieme al nipote Gerolamo sotto il pavimento dietro l’altare maggiore della chiesa abbaziale di San Martino al Cimino, dove Olimpia Pamphili giace dal 1657, quando mori di peste a 65 anni. Dopo aver frugato in ogni angolo della chiesa – che tra l’altro accoglie uno stendardo processionale di Mattia Preti del 1649 e un prezioso diorama dell’intera abbazia datato 1897 a firma di tale Vittorio Biseo – fatevi un selfie sullo sfondo del palazzo principesco che le sta innanzi e godetevi il panorama fino alla Maremma e il mare. Senza trascurare l’assetto urbanistico del paese, rarità assoluta con le casette a schiera di impianto seicentesco. Niente di simile altrove.
Olimpia Maidalchini, questo il cognome da signorina, era figlia di un tranquillo appaltatore delle dogane pontificie di Viterbo dove la “Pimpaccia” (uno dei tanti nomignoli) nacque nel 1592 in una casa in via della Cava. Come da copione venne avviata da giovanissima alla carriera claustrale nel locale monastero di San Domenico. Il padre non aveva però fatto i conti con i suoi bollenti spiriti e le sue ambizioni. La giovane manifestava altri interessi, in parte appagati nel matrimonio combinato con un brav’uomo dell’aristocrazia viterbese, Paolo Nini, cagionevole di salute, ma pieno di soldi, che la lasciò vedova a vent’anni con un discreto bottino.
A Roma le fecero conoscere Pamphilio Pamphili, avanti con gli anni, squattrinato, ma di famiglia nobile, proprietaria tra l’altro del fastoso palazzo di piazza Navona. Dalla sua aveva anche un fratello, più giovane di lui, in odore di carriera cardinalizia. Il gioco si faceva intrigante e promettente.
Olimpia nel 1612 sposò in seconde nozze Pamphilio, trent’anni più grande di lei. Ci fece tre figli, tra cui Camillo, si fregiò dello stemma araldico della casata (passepartout provvidenziale per accedere nella Roma bene) e tenne d’occhio il cognato, sia pur con un filo di amore. Dopo la morte del marito nel 1639, Olimpia consolidò proficui rapporti con la nobiltà del tempo e si dovrà soprattutto a lei se il cognato Giambattista diventerà nel 1644 Innocenzo X.
Con intelligenza e avidità si impose sulla corte pontificia e soprattutto sul papa, sant’’uomo, ma indeciso, di carattere debole, poco avvezzo al comando e agli intrallazzi di palazzo. Anche scorbutico se osserviamo da vicino lo stupendo ritratto di Velàzquez. Le redini della Santa Sede erano nella sue mani. Le “pasquinate” sarcastiche del tempo, una sorta di opposizione silenziosa, erano sempre più frequenti e velenose. Sentite questa “Per chi vuol qualche grazia dal sovrano/ aspra e lunga è la via del Vaticano/ ma se è persona accorta/ corre da Donna Olimpia a mani piene/ e ciò che vuole ottiene/ è la strada più larga e la più corta”.
I soprannomi sono coloriti. Oltre a Pimpaccia”, che suonava di astuzia ed avidità, si aggiunse quello più eloquente di “papessa”. La sua presenza cominciava ad essere ingombrante anche oltre confine, soprattutto in Spagna e in Francia in perenne tensione con lo Stato della Chiesa. La lotta agli odiati Farnese, da lei fomentata per le insolvenze finanziarie, porterà alla distruzione di Castro, presidio del loro ducato, da parte delle truppe pontificie.
All’apertura de Giubileo del 1650 avrebbe fatto man bassa del tesoretto in monete che era stato murato, come usanza del tempo, presso la Porta Santa dal precedente pontefice a Santa Maria Maggiore. Come priora della Confraternita del Crocifisso, avrebbe guidato in presa diretta l’accoglienza dei pellegrini che in quell’occasione raggiunsero il record di 700mila. La gestione di ospitali e locande deve averle fruttato soldi e prestigio.
I maligni sostengono che alla morte di Innocenzo X nell’attuale palazzo del Quirinale, ne occultò la salma per il tempo necessario a fuggire da palazzo con due carrozze riempite di monete d’oro. Non è vero e non ci sono le prove. È confermato tuttavia che dette incarico per l’acquisto di una cassa da quattro soldi. Avida fino all’ultimo. Con il nuovo papa Alessandro VII Chigi le cose cambiarono radicalmente. Per lei non c‘era più partita. Lo capì e si rifugiò prima ad Orvieto poi nella sua San Martino al Cimino dove finì sotto la lapide di cui dicevamo..
Secondo la leggenda, il suo spirito continua a vagare di notte come un fantasma tra le stanze fredde e buie del suo palazzo di San Martino alla ricerca di sonno e di pace. In un immaginario processo dei nostri giorni, si sarebbe difesa così “Mi dissero avida, corrotta, perfino ladra. Calunnie. Ero donna, sola e indifesa, tra lupi randagi in cerca di potere”.

Nella cover, fotomontaggio con il fantasma di Olimpia che vaga sul palazzo di San Martino al Cimino
L’autore*
Console di Viterbo del Touring Club Italiano. Direttore per oltre trent’anni dell’Ente Provinciale per il Turismo di Viterbo (poi Apt). È autore di varie monografie sul turismo e di articoli per riviste e quotidiani. Collabora con organismi e associazioni per iniziative promo-culturali. Un grande conoscitore della Tuscia.

























