Il libro in tasca-Una mattina ideale per camminare

Chiara Mezzetti

Saverio non c’ha mai creduto davvero. Nemmeno quando si faceva il segno della croce a occhi chiusi, inginocchiato di fronte a quel Cristo nudo e sofferente, gigantesco. Nemmeno quando Don Giuseppe lo aveva stretto tra le spalle e gli aveva assicurato che suo fratello adesso era al Creatore, che il Paradiso c’era, e che per parlarci sarebbe bastato giungere le mani e pregare. Ci aveva anche provato Saverio, solo una volta, ma si era sentito subito un idiota e aveva lasciato perdere.
Dopo il funerale di Eugenio in chiesa non ci ha più messo piede. Per tanto tempo è stato convinto che si sarebbe sposato, tutti si sposano gira che ti rigira. Rimangono soli gli strani, i froci, i matti. E lui non era nessuna delle tre cose. Quindi si sarebbe sposato e avrebbe visto di nuovo l’interno di una chiesa. Avrebbe ancora una volta fatto il segno della croce senza crederci davvero, e avrebbe implorato quel Cristo nudo e sofferente di donargli un po’ di fede.
Ora non ci crede più, che si sposerà. Forse è matto o forse è frocio, ma non gliene importa. Ormai è vecchio, e qualsiasi cosa sia è tardi per capirlo, e anche inutile.
Ogni giorno Saverio passeggia per tre chilometri. Si appoggia al bastone e fa leva sul piede buono. Passa davanti al portone della chiesa, si ferma a riprendere fiato. Osserva la vetrata scura, ci appoggia un palmo. Quando l’ultimo residuo dell’impronta si risucchia e scompare, riprende in mano il bastone e prosegue. Ha sempre la tentazione di entrare. Per vedere ancora una volta quel Cristo e dargli una possibilità, per toccare i banchi di legno laccato e sentirli scorrere lisci sotto al palmo. Inginocchiarsi e recitare ancora. Ma alla fine appoggia la mano sul vetro e non ha il coraggio di spingere.
«Una mattina ideale per camminare, proprio ideale» dice Saverio a bassa voce, quasi come se non riuscisse a trattenere quelle parole dentro l’anima e gli trapelassero dalla gola. Tiene gli occhi alla finestra e le palpebre strette a fessura per la luce.
Afferra il bastone, fa leva sul piede buono e parte. Oltrepassa la farmacia, il vialetto di ciottoli che circonda lo stagno. La scuola elementare, il vigneto dei Selvi, il discesone di Monte Rosso. Arriva al portone della chiesa. Lo osserva scintillare sotto i raggi caldi di metà mattina. Imprime il palmo sulla vetrata. Stacca la mano dopo qualche secondo. Osserva l’impronta rimpicciolirsi e sparire in modo graduale. Anche alla sua gioventù deve essere successa la stessa cosa. Deve essersi impressa forte sul vetro, ed essere scivolata via lenta, stringendosi impercettibile fino a evaporare.
Un urlo gracchiato ridesta Saverio dalla nostalgia.
GRAAA GRAAA
Le grida si propagano stonate per tutta l’atmosfera. Saverio si guarda intorno un po’ stordito da quel rumore così insolito, così fuori luogo, così sbagliato in una mattina ideale per camminare, proprio ideale.
GRAAA GRAAA
«Chi va là? Bastardi, birbanti, a scuola la mattina a scuola, zozzi!» si agita Saverio mentre scuote il bastone nel vuoto per difendersi da quella che gli sembra una banda di ragazzini disgraziati. Prendono per il culo il vecchio della chiesa. Quello strano, che non s’è mai sposato. Quello storpio col bastone. Cammina e si ferma sempre davanti alla chiesa ma non entra. È tutto matto quello.
GRAAA GRAAA
L’urlo persiste. Saverio accosta il bastone al muro della chiesa. Appoggia l’orecchio sulla vetrata. Viene da dentro. C’è qualcosa dentro. Qualcuno anzi. Senza neanche rendersene conto Saverio ha già spinto con forza la maniglia arrugginita ed è entrato, ubriacato di curiosità da quell’urlo così insolito.
L’altare è illuminato da un lampadario che oscilla leggero appeso al tetto. Gli affreschi evangelici si stendono in penombra e aderiscono alle curve della cupola. Un banchetto con le candele nell’angolo, alcune accese altre spente. Il pavimento di marmo striato e solido sotto i piedi, il lavabo di peperino colmo d’acqua santa. In fondo, il Cristo nudo e sofferente, gigantesco. Bello e pietoso, accasciato sulla croce. Il volto umano, le labbra scolpite nella pietra, socchiuse, arrese.
La chiesa è uguale a come se la ricordava. Non è cambiato niente. Solo che nella memoria aveva un soffitto altissimo, smisurato. Un perimetro infinito bordato d’oro porpore e pittura. Ora che c’è dentro si rende conto che è più piccola, raccolta, familiare.
Forse era lui ad essere più piccolo l’ultima volta che ci è entrato. O forse troppo grandi e colmi sono i suoi ricordi.
GRAAA GRAAA
Saverio si aggira lento e goffo tra i banchi di legno lucido, trascinando il piede guasto afferrato a due mani. Cerca quella voce, la rincorre con l’orecchio. Segue l’eco.
GRAAA GRAAA
Entra in sagrestia. Passa la mano sui paramenti appesi. Tocca le tuniche bordate d’oro, sente i filamenti ruvidi raschiargli il dorso della mano. Le vesti fresche dei chierichetti gli passano setose tra i polpastrelli.
Anche lui è stato chierichetto una volta. Aveva tredici anni o qualcosa del genere. Durante le ore di catechismo sgattaiolava via sotto gli occhi distratti e miopi della suora. Vecchia e rugosa, rugosissima, bianca e grande, immensa, alta come una colonna portante. E si rifugiava in sagrestia. Si incastrava sotto il tavolo, sdraiato a terra sul pavimento gelido.
Angelica arrivava sempre qualche minuto dopo, ci metteva di più perché la sua di suora era un po’ meno miope. Non si dicevano niente. Lei si accucciava sotto al tavolo e si guadavano. Fissi l’uno sull’altra. Tremavano abbracciati mentre si scambiavano baci inesperti e nervosi. Saverio le passava la lingua sul collo, gliela infilava prepotente nella fessura rigida delle sue labbra serrate. Le leccava i denti uno per uno, con la voglia di contarli e assaggiare ogni centimetro di quel corpo estraneo e affascinante. Con le mani sporche di polvere e gelide del pavimento, le afferrava i seni appena accennati sotto la camicetta bianca. Lei non gemeva, ma sudava freddo. Le pupille le si allargavano nelle orbite fino quasi a riempirle. Non emetteva un suono, al massimo un respiro più intenso. Saverio avrebbe fatto l’amore per la prima volta più tardi, e solo più tardi avrebbe capito la differenza tra quello che succedeva sotto al tavolo e fare l’amore. Sempre che una differenza ci fosse.
GRAAA GRAAA
Saverio si sporge oltre il tavolo. Il suono è troppo vicino. Qualsiasi cosa sia è lì. Con la schiena tutta protesa in avanti, è costretto a spostare il peso sulla gamba guasta. Agita la mano per prendere il bastone, ma quello è rimasto fuori, accostato al muro esterno della chiesa. Prova ad aggrapparsi ai paramenti appesi, cerca una nappa, un mano, ma niente. Cade scivolando sul piano del tavolo, sbatte la testa forte sull’angolo.
Due occhi neri nerissimi. Con dentro tutto il cielo e i chilometri, gli alberi e le montagne, le altezze e gli abissi. Tutto. Saverio incantato e intontito dalla botta li guarda mentre fissi interrompono il fascio di luce che entra dalla finestrella rotta.
GRAAA GRAAA
Saverio non riesce a vedere bene i contorni, ma gli sembra un uccello, di quelli strani, colorati, che vengono da posti mai visti.
L’animale scatta veloce e plana, risalendo il fascio di luce fino a schizzare fuori dalla crepa nel vetro.
Saverio si massaggia la testa per cercare di alleviare il dolore. Chissà cosa sperava di trovare, di vedere. Poteva morire lì dentro. Bastava sbattere la testa un po’ più forte, prendere lo spigolo un po’ meglio. E forse non sarebbe stato poi così male.
Si rialza un po’ sbilenco facendo forza sulle braccia. Esce dalla chiesa senza guardarsi indietro. Accosta il portone dietro le spalle. Il bastone non c’è più.
Saverio si siede sui gradini. Aspetta prima di ripartire. Stavolta ci metterà un po’ di più per arrivare a casa.

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