Il libro in tasca-Se penso a Marisa sento il profumo di polpettone

Chiara Mezzetti

Per i Racconti del Giovedì un nuovo appuntamento con Chiara Mezzetti. Sono i bocconi più dolci quelli che si posso trasformare in pasti dal sapore della solitudine, della sconfitta e della perdita….Buona lettura

Se penso a Marisa sento il profumo di polpettone. È un riflesso immediato: Marisa=polpettone. Il mio cervello li identifica come due corpuscoli dello stesso universo. Un universo fatto di pranzi caldi e fumanti, coccole sul divano e carne, carne a pezzi, carne intera, al sangue, cotta e stracotta.

Marisa è un pasto abbondante, che ti sazia ma non appesantisce, gustoso, sugoso. La mangeresti tutti i giorni, pranzo e cena, senza pane, senza contorno. Solo lei. Sdraiata sul piatto, rannicchiata e tenera ma saporita, pepata, oliata, nuda al centro dell’ovale bianco, con il sederino tutto rotondo che esce un po’ dal bordo. Inizi poggiando la forchetta piano, attento a non bucherellare troppo quella distesa rosea e morbida. Ma poi senza accorgertene ti ritrovi a strapparle i lembi di ciccia a morsi, stroncarli uno per uno dall’osso. Ruttare e non fermarti, leccarti le dita, passarci intorno la lingua per risucchiare ogni particella di lei, ogni lacrima, ogni goccia di sangue.

Io Marisa l’ho inghiottita quasi senza masticare, tracannata come nettare nel deserto riarso, ettolitri e chili di lei tutti giù per la gola. Lei invece m’ha assaggiato con modestia e rispetto, masticando a lungo piccoli lembi di me, poggiando sulla lingua una goccia per volta. L’ha lasciata filtrare piano attraverso le papille gustative, l’ha accompagnata con delicatezza verso la gola. Ci ha aggiunto un po’ di pane, una foglia d’insalata. Ha riempito i vuoti del piatto immenso con decorazioni e contorni, si è fatta bastare con parsimonia la poca polpa che le offrivo. Non si è leccata le dita per educazione, e si è pulita le briciole al lato della bocca sempre prima di ricominciare a parlare.

Se penso a Marisa sento il profumo di polpettone e Per un’ora d’amo-re con Su-ba-si-o. Il jingle della radio, quello che introduce il programma serale di radio Subasio. Sessanta minuti di canzoni d’amore strappalacrime. Che ti stringono al cuore sempre quando sei in macchina, al buio, sulla strada del ritorno, da solo. Che hai pure finito le sigarette e l’unica cosa che resta a farti un po’ di compagnia è quel jingle. Appena giri le chiavi nella porta ti sei già dimenticato che canzoni hai ascoltato, ma quel jingle, quello rimane lì, e gira nella toppa, entra, non scivola via nemmeno con la doccia. Ti riempie la testa, ci rimbomba dentro come una mosca che non trova l’uscita, sbatte sulle pareti e si impone sui pensieri, su qualsiasi altra cosa. Marisa= polpettone+ Per un’ora d’amo-re con Su-ba-si-o.

Il giorno che ci siamo conosciuti non me lo ricordo. Ricordo che lei me lo ha raccontato tante volte il nostro incontro, ma la storia è tutto un Per un’ora d’amo-re con Su-ba-si-o. Non mi ricordo nemmeno il primo bacio. La prima volta a tratti, le altre in maniera confusa. È come se avessimo fatto l’amore un’unica lunghissima volta.

I messaggi se li è portati via il Samsung vecchio, e con loro le foto sgranate a 7 megapixel, i video fuori sincro, la vita fuori sincro.

L’ultima volta ha tamponato il fazzoletto piano ai lati delle labbra, quasi accarezzandole. Ha accompagnato le briciole lontano, fuori.

«Prendiamoci una pausa»

Per riflettere, capire, «una specie di esperimento».

Io lo sapevo che c’era un altro. Un’entità oscura, dai contorni indefiniti. Me lo immaginavo come i cattivi delle fiabe. Gigantesco, obeso, rosso, infuocato. Un burattinaio insaziabile, con gli occhi fuori dalle orbite, che manovrava i fili di Marisa e li mozzava ridendo.

Lo sapevo perché «le donne si preparano sempre il terreno». Me l’aveva detto mio padre, per spiegarmi quanto mia madre fosse una puttana stronza egoista. «Di certe cose meglio essere messi al corrente subito per evitare cazzate future. Non ti sposare, non ti confondere con le donne. Se puoi diventa frocio che fai la meglio cosa. E per carità, fammi un favore, non fare figli per nessun motivo al mondo.»

Lo sapevo perché il mio piatto era sempre più vuoto, e la forchetta non riusciva a piantarsi bene nella carne. Perché appoggiava il telefono con lo schermo rivolto verso il basso e mi consigliava di mangiare il pane per saziarmi, ché lei era esausta di farsi divorare. E diceva che magari con un contorno, un po’ di moderazione, ci saremmo saziati entrambi e sarebbe andato tutto meglio.

«Prendiamoci una pausa. Finisci di mangiare se vuoi, poi sparecchio»

E mi ha lasciato lì, a capotavola. Con le posate strette tra i pugni e il piatto imbrattato di briciole e sugo. Senza un fazzoletto per pulirmi, un bicchiere d’acqua per mandare giù il boccone.

Per chi avesse perso il racconto precedente può leggerlo qui.

 

https://www.ibs.it/racconti-orfani-libro…/e/9788885568488

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