Il libro in tasca-Senza famiglia

Chiara Mezzetti

Per i Racconti del Giovedì un nuovo testo di Chiara Mezzetti: dove la vita si scontra con la fine; dove i legami, anche quelli più stretti si fanno lacci, o morbidi fiocchi che uniscono e accarezzano la ribellione come l’amore. Buona lettura ….

La camicia coreana non va con la cravatta.
Non va con la giacca.
Non va con un cazzo.
Roberto è in piedi, braccia lungo i fianchi, spalle rigide. Fissa la sua immagine a mezzobusto riflessa nello specchio del bagno. I confini del suo corpo sono intervallati da costellazioni di sputacchi di dentifricio. All’altezza degli occhi una macchia di condensa. In un altro momento si sarebbe avvicinato e l’avrebbe spazzata via con il palmo. Ma oggi no. Oggi la macchia di condensa può rimanere.
La camicia coreana l’ha comprata due anni fa. Aveva accompagnato la Bene ai saldi, ché lei con quelle cose ci andava matta. E pure lui s’era lasciato trasportare. «Una camicia può sempre servire»
Sì, ma non una camicia coreana. Quella non serve a un cazzo. Se solo l’avesse saputo, che la Bene l’avrebbe mollato, allora forse se ne sarebbe fregato e avrebbe comprato una camicia normale.
Se solo l’avesse saputo che suo padre sarebbe morto, andato, caput, allora l’avrebbe comprata nera, come usa.
E ci avrebbe messo una bella cravatta, e sarebbe stato il più figo, il più meglio, il più figlio.
Roberto si passa la lingua sui denti, si osserva ancora una volta allo specchio. Non trova i suoi occhi, offuscati dalla macchia. Riesce a intravedere solo una sagoma opaca di se stesso ormai, ora che la macchia si è allargata e ha mangiato tutto lo specchio.
Potrebbe scommetterci, la sagoma rimarrà a casa, a vegliare il mondo dello specchio, quel meraviglioso mondo senza profondità, quadrato, fatto di sputacchi e mattonelle rovesciate. Un mondo in cui la camicia coreana va con la cravatta e con tutto. Anzi, un mondo in cui la camicia coreana non c’è proprio.
Sarà ridicolo. Presentarsi al funerale di suo padre come un senza famiglia. Si dice così al paese, di quelli scapestrati, svogliati, vestiti male, senza famiglia.
«Senza famiglia» sussurra Roberto ridacchiando, mentre rovista nel frigo. Si attacca alla lattina di Best Bräu. La tracanna tutta, senza respiro, senza famiglia. Si pulisce la bavetta di schiuma accumulata sull’angolo delle labbra con il polsino della camicia coreana. Senza cravatta, senza famiglia e con il polsino sporco. Senza ritegno.
Carla lo passa a prendere alle 10:00. Un’altra Best Bräu. Ci voglio andare ubriaco al funerale di quello stronzo.
La Suzuki Celerio di Carla si sente per tutto il vialetto. Prima o poi quel catorcio le esploderà sotto al culo, e in una nuvola di gas e polvere se ne andrà pure lei.
Abbassa di poco gli occhiali da sole. Ne esce un piccolo frammento di bulbo oculare, rosso, rossissimo. Ma non arriva all’iride. Di che colore ha gli occhi poi? Marrone… Cioè se li avesse di un altro colore me lo ricorderei…Se non te lo ricordi è marrone.
«Un minimo di rispetto. Hai bevuto pure oggi. Non ho parole… Al funerale di papà. Ma come ti sei vestito poi?»
Carla procede in direzione della chiesa. Non parla, ma un leggero fremito le agita le nocche sul volante. Vuole urlare. La tensione le si irrigidisce lungo le nervature delle tempie. Ma rimane immobile, tradita solo da quel piccolo tremolio. Le guance le si gonfiano in un rossore innaturale, e con la faccia tutta carica di ossigeno e parole, Carla dice:
«Tu l’hai sempre odiato. Potevi anche non venirci al funerale, in queste condizioni, senza rispetto»
Roberto aspetta che Carla dica senza famiglia. Ma non lo dice.
«Che poi perché si può sapere eh? Che ti ha fatto papà? E non mi tirare fuori la storia della casa. Quella è stata un pretesto. Aspettavi solo la scusa perfetta. Ma tu lo odiavi da prima, non mi dire fesserie Robè lo odiavi da prima»
Roberto tiene la testa appoggiata al finestrino. Il fresco del vetro gli allevia il mal di testa, e per un attimo sente le parole di Carla allontanarsi nel buio e lasciarsi risucchiare dal mondo reale, mentre lui sparisce tra gli sputacchi e le mattonelle girate.
Come ci sia arrivato non se lo ricorda nemmeno lui. Le gocce che hanno eroso la terra, i vulcani esplosi tra le vene, i nervi spezzati, le parole ripetute, sputate. Ci sono state, c’è stato tutto. Ma lui ora non se lo ricorda. Ne ha un vago sentore, come se fossero accadute al di là di uno schermo opaco.
Ora quello stronzo è morto.
E Roberto ci dovrebbe stare male.
E Roberto dovrebbe sputare sulla lapide.
Come ha sognato tante volte. Non vedo l’ora che muori, vecchio. E quando muori ti sputo sulla lapide, lo faccio.
Ma Roberto non riesce a ricordare.
«Facciamo sega»
«Roberto, che vuoi dire?»
«Non ci andiamo al funerale. Tanto io non sono vestito giusto, e non sono sobrio giusto. Ci fermiamo alle giostre, ci ubriachiamo alla faccia dello stronzo. E trasformiamo un giorno del cazzo in un giorno bello, che vale la pena di vivere»
Carla continua a guidare. In un secondo infinito immagina di vivere quel pomeriggio strampalato. Nel sogno a occhi aperti, lei ha esattamente la sua età, ma l’aspetto di una foto scattata dieci anni fa. Un vestito a fiori, comprato alle bancarelle in gita del quinto, al centro esatto di Barcellona, il vestito di Barça. E sterza e fa inversione. Scende e ordina un panino con salame piccante, Roberto prende la porchetta. E si ingolfano le mascelle e ridono e si strozzano. Carla gli stampa un bacio sulla guancia, a quel fratello che finalmente se lo fa dare. Quel fratello che è l’amore, che ha vent’anni pure lui. E cavalcano i destrieri delle giostre e Roberto si alza in piedi sulla sella di plastica per farla ridere. Lo zucchero filato e la birra. I tumulti delle montagne russe, il cuore un po’ più grande, la musica di sottofondo. Le parole del testo urlate, sentirsi onnipotenti, in cima al mondo, in cima a tutto. E vorrebbe morire adesso, dentro questa fantasia. Lasciarsi intrappolare in un coma irreversibile, biglietto di sola andata per Disneyland. E vivere il resto dell’esistenza a cavallo del destriero di plastica argento e oro, a leccare zucchero filato. E correre tutto in cerchio, sempre intorno alla giostra, e ritrovare ogni volta dall’altro capo il fratello scomparso, Roberto in piedi sulla sella a farla ridere.
Un secondo infinito.

Per chi si fosse perso la storia precedente può leggerla qui.

https://www.ibs.it/racconti-orfani-libro…/e/9788885568488

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