Tredicesimo secolo, Viterbo sceglie la nuova casa comunale tra rivalse e compromessi

di Luciano Costantini

Il tredicesimo secolo, con l’avvicendamento al potere dei ghibellini dell’imperatore Federico II e dei guelfi del papato, Viterbo non è più in grado di supportare il crescente incremento della popolazione, stanziale o/e itinerante che sia. La città pullula di ufficiali, armigeri, nobili, cardinali, prelati, preti, monache. Dame e parrucconi. Senza contare l’aumento esponenziale dei catari che invadono le strade e le piazze per predicare il nuovo movimento ereticale cristiano. Oggi si direbbe che Viterbo ha problemi serissimi e improcrastinabili di ricettività. Ai rappresentanti del clero, agli armigeri, ai cortigiani, ai commercianti deve garantire un degno e capiente alloggio. E in primo luogo deve garantirlo ai propri amministratori. Già dal 1247 il governo ghibellino si impegna ad individuare una acconcia sede comunale: troppo angusta la sede di piazza del Gesù, appena a destra della torre di Ildebrandino Bogognone; di fronte, sotto un buio portico è ubicata la Corte Civile; più un là sorge l’austera dimora della potente famiglia Di Vico. In un angusto palazzo, presso San Pietro dell’Olmo, è la residenza del Capitano del Popolo; nella chiesa di Sant’Angelo o anche in quella di Santa Maria Nuova si tengono le adunanze dei Consigli cittadini (quello Speciale composto da cento membri, quello Generale da duecento e quello dei Cinquecento). Insomma, tutto troppo stretto per una città che sta lievitando e non intende perdere per inadeguatezza il privilegio di continuare ad essere sede del Papato. Così viene scelta un’area per costruire la nuova sede comunale: è detta del Prato del Cavalluccio, ospita un’antica pieve, Sant’Angelo in Spatha, un annesso cimitero recintato da un muro con alberi e portici sotto i quali quotidianamente si tiene un brulicante mercato rionale. E’ il cuore della città. Diventerà piazza del Comune o del Plebiscito. Peccato per gli amministratori che sia di proprietà ecclesiastica della dirimpettaia chiesa di Sant’Angelo, guidata dal priore Vegnente (o Veggente), probabilmente nipote dell’illustre per quanto autorevole cardinale Raniero Capocci, che qualche anno prima ha annientato Federico II. La prima reazione del curato è quella di ricorrere alla Camera Papale per bloccare l’esproprio. Qualche giorno più tardi caccia dalla chiesa il podestà, Guidone dei Lazzari, e i maggiorenti del Comune fatti scomunicare dal prevosto di Santa Maria Maddalena soltanto perché colpevoli di non aver preso in considerazione le istanze del curato. Il risultato immediato è lo stop all’esproprio che tuttavia riparte, qualche tempo dopo, con l’avvento del nuovo podestà, Monaldo Fortiguerra. Cimitero, alberi, portici, edifici, manufatti vengono rimossi con la promessa in cambio di assicurare al priore una congrua indennità annuale, fissata dal Romano Seggio, cioè niente meno che dal Papa. Fin qui la complessa e arroventata fase progettuale dell’acquisizione dell’area. Nel febbraio del 1265 la piazza è quasi realizzata: al centro, scendendo dall’attuale via Cavour, ecco il primitivo palazzo dei Priori; a sinistra, all’imbocco di via San Lorenzo, viene eretto il palazzo del Capitano del Popolo (oggi la Prefettura) sulle macerie delle dimore dei discendenti dei Tignosi. Ma intanto il priore Vegnente non è che abbia metabolizzato l’esproprio della pieve e segue con esagerata attenzione tutti i lavori anche perché lamenta il mancato rispetto dei patti sottoscritti con il Comune e un giorno per protesta comincia ad abbattere – non si sa con quanta fortuna e con quanto seguito popolare – i primi manufatti del nuovo centro politico di piazza del Comune. Comunque alla fine il palazzo dei Priori prende forma, ampliato e rimodernato nel XV° secolo sotto Sisto IV. Al centro della piazza viene innalzata una fontana, trasferita nel 1624 nel cortile interno del palazzo. Nata dalle mani sapienti degli artisti viterbesi Antonio Pieruzzi, Agostino Prosperi, Leonetto Carrarini, Antonio Conti. Appena otto anni dopo vengono restaurati e ingranditi portico e loggiato interni, già costruiti nel 1445 da tale Cecco di Domenico da Mugnano. E il Priore Vegnente? E’ talmente inviperito da costringere a far intervenire papa Clemente IV prima della morte, avvenuta a Viterbo il 29 novembre del 1268. Il pontefice individua un compromesso che fa salve le esigenze di crescita e rinnovamento  della città e frena il travaso di bile dell’ostico curato: don Vegnente alla fine di ogni anno avrà la sua generosa indennità (o appannaggio), come nei patti, e il Comune, proprio dinanzi alla chiesa di Sant’Angelo in Spatha, dovrà innalzare una colonna sormontata da un grintoso leone tenuto a sorvegliare in eterno la canonica.

 

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