Le pestilenze nella storia di Viterbo

di Gianluca Braconciini

Nella storia di Viterbo le epidemie e le calamità non sono state un evento eccezionale ma, come nel resto dell’Italia e dell’Europa, si sono presentate con una certa ricorrenza e regolarità; esse sono testimoniate dagli scritti lasciati dai vari cronisti grazie ai quali è stato possibile individuare gli anni in cui le ondate pandemiche ci colpirono e come la città ha reagito a questi tragici eventi.   Le grandi pestilenze che si diffusero  a  Viterbo così come in altre città italiane si verificarono  anche negli anni prossimi ai Giubilei quando grandi masse di pellegrini muovendosi da tutta Europa e percorrendo le strade che conducevano  a Roma, attraversavano in massa la nostra città. Nelle cronache cittadine viene riportata come prima data il 1348, anno della “Peste Nera”; lo storico Ignazio Ciampi, nelle “Cronache e Statuti della Città di Viterbo” scrive: “Anno 1348. Fu in Viterbo gran mortalità”. Le enormi pandemie si verificavano con una certa ciclicità che andava dai 10 ai 15 anni, il loro contagio e la loro diffusione, come ci racconta Cesare Pinzi, era dovuto soprattutto alle pessime  e scarse condizione igieniche in cui vivevano i viterbesi, al loro stretto rapporto con gli animali, alla sporcizia delle case e nelle strade. In un testamento scritto dal nobile viterbese  Cecco di Messer Paltomo si capisce che durante la  peste nera morì un terzo della popolazione che viveva nei territori della Tuscia. Nel Trecento ci furono altre ondate epidemiche, quella del 1363, del 1368-69, dove il Ciampi descrive che morirono diversi cardinali ed infine nel 1399 la cosiddetta “Peste dei Bianchi”. “Anno 1399: Vennero in Roma certi tramontani vestiti di pannilini bianchi, per la qual venuta tutta la cristianità fe’ movimento. Vennero con gran divozione, e facevano fare pace a tutti li discordanti…”. Fu proprio il passaggio di questi pellegrini vestiti di bianco, diretti a Roma per il Giubileo e che favorivano  la pace tra la gente,  la causa dell’epidemia che decimò Viterbo e molte altre città italiane. Anche il Quattrocento fu un secolo segnato da ondate epidemiche che colpirono la città dal 1419 al 1467; proprio in questo anno risale il culto dei viterbesi verso la Madonna della Quercia. La storia viterbese racconta che fu la Vergine a salvare la popolazione da questa terribile epidemia; la sua miracolosa intercessione fece nascere una devozione talmente forte  che in suo onore venne eretto il grandioso santuario. La Cronaca di Niccolò della Tuccia ricorda una terribile pestilenza che colpì la città nel 1470: “Tuctauia seguitaua en Viterbo, et anche en Siena granne mortalità de Vecchi et anche de giouani, et moreuano de feure e ponctora…”. La ponctora di cui parla il cronista era con molta probabilità una malattia dell’apparato respiratorio, che ai tempi veniva curata utilizzando la “scippa”, un infuso fatto con la pianta di Scilla a cui veniva aggiunto del vino. Un’altra grave epidemia si diffuse nel 1476,  dove  persero la vita i cronisti Niccolò della Tuccia e Pier Gian Paolo Sacchi; ecco cosa scrive Ignazio Ciampi: “Nel detto 1476…usavasi  crudeltà assai a poveri e peregrini, e serraronsi li ospidali e abbandonaronsi li amalati…né trovarsi da sepellire, e anco portare sopra a scale e’ corpi…vidi patri portare a sepellire figliuoli e con le scale sepellire…mancando la peste febri terzane note, overo chiamate doppie. Molti ne moriro con subversione de stomaco…”. Altre pestilenze vennero segnalate nel 1478, 1488 e 1494, 1522, 1566 e 1657 ma i cronisti si limitarono a delle descrizioni piuttosto brevi. Le autorità cittadine dei tempi, Priori, Consoli e Governatori, cercarono di trovare delle misure adatte a limitare ed arginare la diffusione delle epidemie e per quanto possibile a prevenirne l’espansione, attivando tutta una serie di provvedimenti non dissimili da quelle attuate oggi per contrastare l’enorme contagio del coronavirus.

Nelle Riforme Comunali ad esempio è possibile leggere quali siano state, nel corso dei secoli,  le disposizioni prese durante le varie epidemie; innanzitutto  venivano chiuse la maggior parte delle porte, quelle lasciate aperte erano sorvegliate a turno da cittadini preposti: “…vi habbino a’ stare di continuo dui cittadini contribuendosi fra di loro l’hore, et che nessuno sia esente per qual si voglia a’ tutti e giri a turno…che si piantino due forche una a Porta S.Lucia (attuale Porta Fiorentina) e l’altra di S.Sisto per punire i trasgressori…”. Davanti ad alcune vennero costruiti degli steccati vigilati da soldati che li aprivano solo per far entrare coloro che fossero in perfetta salute: “…che i Deputati delle Porte non lascino entrare infermi, anchorché habbino bolletta di sanità…”. Furono stabiliti degli orari precisi sull’apertura e chiusura delle porte: “all’Avemaria si serrino le Porte e non si aprino fino a giorno chiaro…”. Terminato finalmente il pericolo di contagio e finita l’epidemia l’uso delle porte civiche ritornava alla sua normale quotidianità. Venivano poi chiuse le scuole, espulsi mendicanti e prostitute,  per evitare la concentrazione dei cittadini furono interrotte  le cerimonie nelle chiese; si raccoglieva del cibo e veniva lasciato fuori le porte per far sì che gli abitanti del contado potessero aver modo di sfamarsi. La popolazione distrutta e devastata dall’horrendo male, in preda al panico ed alla disperazione più totale  si rivolgeva anche al Cielo affinché l’aiuto e la misericordia divina scendessero su tutta la città così da far cessare l’epidemia. Una grande processione con il trasporto dell’immagine della Madonna della Quercia per ringraziare la vergine del pericolo scampato fu svolta domenica 20 agosto 1467. Il ricordo di questo avvenimento è visibile in un affresco sulla lunetta sopra l’ingresso delle scale del palazzo dei Priori. Nelle Riforme Comunali si legge che il 23 luglio del 1476 si riunì  il Consiglio cittadino e venne decretato che fossero recitate delle pubbliche preghiere e celebrate processioni con il trasporto di reliquie di santi e del corpo di Santa Rosa,  che venne portato il giorno dopo per le strade della città.  La tipografia Diotallevi nel 1657 in occasione del morbo stampò una xilografia raffigurante la Madonna col Bambino, Santa Rosa che teneva una croce in mano e la formula del voto per scongiurare la peste; i viterbesi avevano chiesto l’intercessione della Santa “…per placare l’ira Divina e la calamità del male pestifero…”. La popolazione fece voto alla Santa stabilendo un digiuno che si doveva effettuare per sette anni a seguire “…di ciasche anno alli tre di Settembre, per detto spatio de tempo”. I viterbesi dovevano astenersi, in quel giorno, a svolgere giochi, corse con palio ed altre attività ludiche; inoltre “…applicare elemosine in servitio della Chiesa della predetta Santa” Quando finalmente la pestilenza terminò fu svolta una grande processione di ringraziamento per le vie della città e l’anno successivo il pittore viterbese Giovan Francesco Romanelli detto “il Raffaellino” realizzò un quadro che donò al monastero di Santa Rosa raffigurante la santa viterbese genuflessa e circondata dagli angeli mentre prega la Madonna ed il Bambino affinché Viterbo venisse liberata dalla peste. I cittadini non si limitarono a sfilare solennemente in processione e recitare preghiere per scongiurare la fine delle epidemie ma fecero ben altro; i parrocchiani di San Luca e San Faustino per ringraziare la Vergine dallo scampato pericolo a fine Quattrocento realizzarono, anche col contributo del Comune, il tempietto di Santa Maria della Peste che si trova tra la fine di via Cairoli e piazza del Sacrario. La chiesa secondo lo storico Cesare Pinzi risale al 1494 e venne realizzata davanti ad un’immagine sacra dipinta su un muro nei pressi delle antiche fornaci esistenti un tempo, a ridosso del ponte Tremoli. Il  Bussi aggiunge che in occasione della diffusione del  morbo venne scoperta in quella zona “una sacra immagine e che concorrendo il popolo con molta divozione, moltissimi restarno preservati dal flagello…”; con molta probabilità i viterbesi rimasero immuni non al contagio della peste ma dal cosiddetto “mal francese” o sifilide che i soldati al seguito di Carlo VIII diffusero in Italia tra il 1494 ed il 1495.

Il tempietto ha un elegante forma ottagonale di stile bramantesco con una cupola ribassata rivestita di tegole di terracotta;  al suo interno, l’altare presenta un’immagine di San Giovanni Battista realizzato nel Cinquecento, scoperto nel 1920 ed un Agnus Dei. Gli affreschi sulle pareti sono dei primi del XVI secolo ed illustrano parti della vita di San Giovanni Battista. In una nicchia sono tre santi quello al centro è San Sebastiano. Vi sono poi due lapidi che ricordano i caduti della prima e della seconda guerra mondiale. Nel 1590 i frati della vicina chiesa di San Giovanni Battista degli Almadiani permisero ad un privato di appoggiare la sua casa su un lato del tempietto ed altri nel tempo fecero lo stesso, tant’è che la chiesa venne così inghiottita da altri edifici. Nel 1636 ebbe inizio il culto di Santa Maria Elisabetta su volere del nobile viterbese Giovan Battista Zazzera e così la chiesetta cambiò intitolazione. Duranti i lavori eseguiti nel 1933 vennero rimosse le varie casupole  per dare più visibilità al tempio e nel radicale restauro furono anche aperte le finestre sulle pareti; il primo novembre 1936 la chiesa fu destinata a Santuario dei caduti in guerra ed il tripode che si trova davanti venne collocato nel 1937.  Ma il vero tesoro di questo edificio resta il pregevole pavimento  realizzato in mattonelle quadrate, smaltate  con una varietà di disegni con soggetti geometrici, umani, animali e la presenza di alcune iscrizioni. Venne realizzato a fine Quattrocento dal viterbese Paolo di Niccola, su finanziamento di Paolo e Martino Mazzatosta, conciatori di grano, come si legge dalle iscrizioni sul pavimento. Alcune mattonelle ritraggono anche teste di dame e cavalieri in curiose caricature; una realizzazione umoristica spesso utilizzata sia nella ceramica che nella “pittura vascolare” della nostra città. Queste raffigurazioni rispecchiavano anche lo spirito de gojarìa vitorbése che, con spettacoli popolari, giochi e feste accompagnava in quel tempo la vita dei viterbesi durante i periodi di pace e serenità.

 

 

 

 

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