Il lavoro di mio padre. Montefiascone 1971

Chiara Mezzetti

La passione per lo scrivere di Chiara Mezzetti germoglia nei suoi racconti brevi in cui lascia trapelare lo stile e la ricerca della sicurezza narrativa. Il nuovo racconto si allunga su una storia più intima e meno graffiante in cui i dettagli sono minuziosi, proprio come Edipo, cerca fuori di sé qualcosa che le sta molto più vicino di quanto pensi.

Il lavoro di mio padre
Montefiascone, 1971
Finiva che stavo piantato davanti allo specchio per ore.
Con le dita spostavo capello per capello. Li tiravo per farli arrivare almeno alla punta delle orecchie, ma si riarrotolavano sempre su se stessi sopra la tempia.
Non c’era verso di farceli rimanere. Così alzavo il colletto della camicia, insaccavo il collo, infilavo lo zuccotto e uscivo di cattivo umore.
Sembrava me lo facesse per dispetto a tagliarli così corti.
«Almeno falli arrivare a coprire le orecchie. Per favore!»
«Piantala con tutte ‘ste storie, che tanto ricrescono in una settimana»
«Sì, ma appena ricrescono tu me li tagli»
E poi chiudeva il discorso. Mi infilava la scodella in testa come fosse un elmetto, e con le forbici seguiva il bordo in orizzontale.
Mi domandavo perché me li facesse sempre così, visto che prima di diventare vigile era stato il barbiere del paese per una decina d’anni.
Un barbiere dovrebbe saperli tagliare senza scodella, mi ripetevo in continuazione mentre vedevo cadere i miei riccioli uno per uno. Ero convinto che me lo facesse per dispetto, come a dire «qui comando io e i capelli li porti come dico io».
Non capiva che io con le orecchie scoperte ero nudo.
Che avrei preferito andare in giro senza mutande che senza capelli. Che quel difetto era una lampada incandescente puntata su di me, che tutti lo fissavano e che sarebbe bastato un centimetro in più. Un misero centimetro e sarei potuto andarmene in giro spavaldo, con il collo ben disteso.
Eravamo rimasti solo io, lui, Gian e mia madre in casa, perché gli altri fratelli più grandi stavano per conto loro. Però i soldi per il barbiere non c’erano lo stesso, e, anche ci fossero stati, mio padre non avrebbe mai accettato che con un barbiere in casa io fossi andato a buttare soldi da un altro.
Nonostante il taglio imbarazzante e la giacca fuori moda già indossata dai fratelli precedenti (che mi stava tre volte perché io, come Gian, a differenza degli altri, ero un secco) piacevo alle ragazzine.
Facevano tutto l’atteggiamento da teppistello e il sorriso largo.
Solo una non mi guardava di striscio. Era la figlia del dottore. Lei usciva con i tipi che la giacca se la facevano fare dal sarto, con le orecchie piccole e il sorriso stretto.
C’era qualcosa in quel suo modo di camminare, in quel suo essere lontana, assente, superiore al resto. Tutto intorno a lei si restringeva a residuo, scampolo di realtà.
Andava alla scuola femminile delle suore, arroccata sulla cima di via XXIV maggio. Studiava tutta la settimana, tranne il martedì e il giovedì pomeriggio, quando andava a lezione di pianoforte, sempre dalle suore.
Le facevano il filo tutti i migliori partiti del paese. Tommasi, figlio del notaio, Galletti, figlio dell’avvocato e nipote di un giudice importante, Franceschi Marini, che aveva due cognomi e mezzo pisello, figlio di un importante imprenditore che si era trasferito da Arezzo.
Lei sorrideva a tutti, ma alla fine non la dava a nessuno. Quello che ci era arrivato più vicino era stato Maggesi, che l’aveva baciata, o almeno così diceva.
Io e la banda spesso bigiavamo scuola per andare a spiare le ragazzette dell’istituto femminile. Sfrecciavamo con le nostre biciclette e scavalcavamo il cancello. Pedalavamo a più non posso per non essere visti dal bidello che controllava il cortile. Riuscivamo ad arrivare appena in tempo per l’inizio della ricreazione.
Ci arrampicavamo sul muretto e ci aggrappavamo alla grata, con i piedi infilati tra una sbarra e l’altra. Appena suonava la campanella, le studentesse straripavano dalla porta come un fiume elegante e pieno, stacchettando sulla pietra del cortile con le loro scarpette bianche e sculettando sotto le gonne a pieghe.
Lei la individuavo sempre per prima. Era una delle poche ragazze bionde dell’istituto e del paese, ma la riconoscevo più che altro per l’atmosfera che irradiava tutto intorno, per la condensa di vuoto che si ricalcava sul perimetro dei suoi lineamenti senza mai riuscire a penetrarli.
Alcune ragazzine un po’ più sceme si avvicinavano alle grate ridacchiando. Le più audaci si azzardavano a toccarci la punta delle scarpe e poi scappavano per paura di essere pizzicate dalle suore.
Lei niente. Non si girava. Non mi guardava. Né me né il resto della banda.
Se ne stava nel suo angolo con le amiche tirate a parlare.
Uno dei giorni del pianoforte, mi appostai dietro il muretto che costeggiava l’istituto, e, non appena scese, mi fiondai in piedi come un bandito che balza fori da un’imboscata.
Lei, spaventata, si ritrasse indietro d’istinto, facendo due passi senza guardare, e nel giro di pochi secondi si ritrovò con la gonna immersa in una pozzanghera. Io le allungai la mano per aiutarla a rialzarsi, per convincerla a prenderla allargai il mio sorriso grande.
Lei, senza guardarmi, si rialzò in piedi con tutto il fango che le sgocciolava giù per i polpacci. Strizzò con decisione uno per volta i due lati della gonna, scoprendo di qualche centimetro un metro di cosce bianche e lisce. Come se niente fosse, si avviò verso la porta del palazzo.
Io allora, correndo con tutta l’energia che le mie gambe secche potevano tirar fuori, riuscii a superarla e mettermici davanti. Provò a schivarmi e io allungai il piede come a dire «di qui non si passa».
«Lasciami entrare per favore»
«Sennò?»
«Faccio tardi a pianoforte. È cortesia che tu mi faccia passare»
«Mai stato cortese»
«Che cosa vuoi?»
«Hai due belle cosce per essere una che va dalle suore»
«Io almeno a scuola ci vado»
«Ah, quindi mi hai visto»
«Il cortile è piccolo»
«Pensi di essere migliore perché tuo padre fa il dottore?»
«No, penso di essere migliore perché io almeno ho le orecchie normali e porto vestiti della mia taglia»
«Stronza»
«È stato un piacere anche per me»
Per tornare a casa pedalai a perdifiato, maledicendo la scodella, mio padre e la mia giacca sformata. Preso da un attacco di rabbia, accostai la bici sul prato e gettai la giacca a terra, all’angolo della strada. Il resto del tragitto lo feci tremando per il freddo paralizzante, ma felice di essermi liberato di quell’insegna luminosa che gridava «poveraccio».

Con la banda continuavamo ad appostarci dietro la grata, e di tanto in tanto lei mi guardava per sbaglio, o almeno così lasciava intendere. Se prima non la sopportavo, ora la odiavo. Ora non ero solo piccolo e sporco, ero uno scampolo di realtà.
La cosa che mi dava più sui nervi era la necessità che mi aveva instillato in qualche parte del cervello, che non riuscivo a trovare ma che c’era e mi tormentava.
Avevo bisogno di vederla quando camminava per andare a pianoforte.
Avevo bisogno di spiare le note che volavano alte attraverso le finestre del palazzo e di afferrarle col pensiero per farne comunicazione.
Dovevo pensare che mi stesse parlando, che mi stesse considerando. Era del tutto irrazionale, ma ne avevo bisogno.
Mi vergognavo di me stesso. Di ciò che ero e non potevo cambiare.
Mi piaceva immaginarmi a cavallo di una moto sportiva. Con addosso una giacca su misura, i capelli ricci e lunghi accarezzati dal vento.

Tutto questo però non avrebbe cancellato il fatto che fossi figlio di un vigile, o al massimo di un barbiere. Non mi avrebbe insegnato a camminare come camminava lei. E forse non sarebbe bastato un solo centimetro. Non più.
Decisi di parlarci un’ultima volta. Dovevo riprendermi me stesso, anche se forse non mi ero mai posseduto.
Dato che mio padre si ostinava a non volermi comprare una giacca nuova, decisi di vendere le ruote della bicicletta.

I soldi bastavano sì e no per una del negozio, non certo per il sarto, ma per me era già un grandissimo salto di qualità.

Dovevo tagliarmi i capelli da un mese, perciò avevano raggiunto la lunghezza per coprire almeno la punta delle orecchie. Avrei pedalato fino in cima a via XXIV maggio, e lì avrei messo fine a tutto.
Non avevo calcolato che andare in bicicletta in salita solo con i cerchioni, senza ruote, non era un’impresa facile, e richiedeva dei muscoli che alle mie gambe secche non appartenevano.

Il sudore mi infradiciava il retro della giacca, lo sentivo filtrare oltre il tessuto e stagnarsi in una pozza al centro tra le scapole.
I polpacci si sfibravano a ogni giro di catena e la milza si spaccava e bruciava sopra l’anca. La fronte pulsava a mandate sempre più ravvicinate e la vista si sgranava in pallini neri fluttuanti.
Un dito indice, con l’unghia smaltata in rosso, si muoveva su e giù per dei fili. Una flebo, un pavimento bianco. Odore di varechina e pipì.
Voci fredde, strane. Lenzuola ruvide. Rumori acustici irregolari e velocissimi.
«Il ragazzo si è svegliato, vai di là e avverti».
Penna su foglio.
Passi verso l’esterno.
Passi diversi, più nervosi, più grossi, verso l’interno.
La sagoma di un uomo. Sempre più vicina.
Mio padre.
I frammenti del suo volto mischiati per qualche minuto, poi ricomposti a formare il viso a me familiare, solo più vulnerabile di come ero abituato.
Mi pose una mano sulla testa, bisbigliando tra sé e sé qualcosa che somigliava a un ringraziamento o una preghiera.
«Amore mio, come stai? Il babbo era tanto in pensiero per te»
E gli occhi gli erano diventati grandi come tutta la fronte.
«Babbo, ma che è successo?»
«Sei svenuto sulla bici e sei caduto. Una macchina non ha fatto in tempo a frenare e ti ha preso sotto. Hai dormito per ventiquattro ore»
«Ho ancora tutto al suo posto?»
E mi toccavo in giro per il corpo a casaccio con l’unica speranza di sentirmi.
«Sì, tranne…»
«Cosa?»
Una stretta mi strozzò il cuore e me lo tenne sospeso per tutti e due i secondi che intervallarono la risposta.
«I capelli. Non ci sono più»
«I capelli?»
«Quando ti hanno preso sotto, la testa ti si è aperta in due. Hanno dovuto ricucirtela ed era necessario farli a zero»
«Ma il resto…»
«Il resto c’è tutto. Non ti preoccupare. Andrà bene»
Mi stampò un bacio sulla fronte. Il più caldo che avessi mai sentito.

 

Foto: Montefiascone, paesaggio su tela- autore Elio Picariello

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