RACCONTI BREVI/ Soffocati dalle anatre

Ero seduto su un tavolo di legno, all’interno del recinto di cemento in fondo ad una stradina che avevo trovato nel ritorno in bici dal mio primo giorno di quinta elementare. Guardavo al di lá dello steccato, osservavo le anatre starnazzare. Non mi parve di sentire nessuna eco. Nel giro di qualche minuto, una sana curiosità si trasformò in noia; le anatre sono interessanti solo quel poco da fartele immaginare che camminano in fila indiana su un’autostrada di domenica. A dir la verità, il mio primo giorno era stato un incubo, decisi che avrei aspettato almeno un anno per tornarci.

La luce del sole passò velocemente dal rosso al viola, poi un arancio opaco finì col ricoprire l’intera strada. Raccontai di come il primo giorno fu un disastro e del tempo che mi sarei preso prima di rientrarci, ora che c’erano mio padre e mia madre sarebbe andato tutto bene. Forse l’eco della semi disgrazia sul primo giorno non arrivò come speravo, così come a me non arrivò quello delle anatre.

Parlavano: mia madre gridava sputacchiando sul pavimento, mio padre mi fece un occhiolino e disse, guardandola negli occhi: «Non davanti al bambino»; il tono controllato, il sorriso del senso di colpa di un uomo che tenta, ma che non ci riesce: «Non ci devi nemmeno provare a giocarti la carta del bambino. Chiariamo ora e subito». La prese per un braccio, cacciò un mezzo urlo, più che per il dolore credo perché quella mossa non era tipica di quell’uomo.

In classe ero stato costretto a sedermi all’ultimo banco, da solo, gli altri avevano già trovato un compagno o una compagna con cui passare l’ultimo anno, almeno per loro, io lá dentro non ci sarei tornato; cambiare città è dura, ma cambiare scuola lo è ancora di più. Diamine, avevo solo dieci anni. Sapevo che mia madre era propensa a cogliere sempre il meglio nelle persone, a me sfuggiva mio padre, tra la piccola cicatrice a mezza luna sotto al naso e la barba un poco incolta.

Fecero per andare in camera da letto: «Tu resta qui, capito?! Non muoverti, per nessun motivo, io e tua madre dobbiamo risolvere un guaio da grandi». Ancora non capivo bene cosa significasse ‘un guaio da grandi’, i guai erano guai, per quel poco che ne sapevo, ma quando un adulto parla seriamente lo capisci nel tempo di un singhiozzo, tanto che indurii le ginocchia per dare alle gambe un senso di saldezza. Una lampada che si infrangeva contro la parete, offese corpi spolmonati, e lo schianto di una mano contro la pelle. Al diavolo la stabilità corporea.

Corsi verso la porta, la aprii con una certa foga, tanto che caddi a terra con la mano ancora sulla maniglia. Mani ricoperte di vene e peli erano avvinghiate su un collo esile, la faccia appartenente al collo grondava lacrime o sudore, non ricordo. Gli occhi sottili di mia madre piombarono su di me, steso a terra, stremato. Il groppo alla gola si fece alacre e divenne l’esperienza più vicina al soffocamento che avessi mai provato, senza contare la volta in cui un pezzo di mollica appallottolata che mi ficcai in gola, quasi mi fece chiudere il sipario con largo anticipo. E sembrò che andasse proprio in questo modo, io e mia madre, soffocati dallo stesso granitico punto di riferimento che pian piano andava sgretolandosi. 

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