Ronciglione e Rio Vicano, storie di uomini di Antonello Ricci

“Ronciglione e Rio Vicano: storie di uomini, acque, ferro e carta”, passeggiata/racconto per le vie del borgo medievale in compagnia della Banda del Racconto e degli allievi del Master dell’Università degli studi della Tuscia in “Narratore di comunità” – Con la regia e partecipazione di Pietro Benedetti Antonello Ricci, Il narratore di comunità
Presentazione itinerante del volume di Marco D’Aureli, “Il narratore di comunità”, Davide Ghaleb Editore, Vetralla 2017

Un emissario artificiale scavato ai tempi degli etruschi e dei romani. L’acqua che defluisce dal lago va a incanalarsi per una forra naturale. Gorgoglia argentina. Più a valle, c’è un tetro castello medievale, un borgo che gli si acciambella ai piedi, uno strapiombo che dal rio risale su, fino al borgo. Si chiama rio Vicano. La gola è stretta, la pendenza è buona, il luogo si affolla di opifici: soprattutto ferriere e cartiere. XVI e XVII secolo, armi da guerra e libri (freschi di torchio: la prima edizione dell’Aminta di Torquato Tasso, la Secchia rapita del Tassoni). Archibugi e ottava rima. La nostra via, faticosa e contorta – ipocrita, tutta papalina – alla Modernità Borghese: una modernità stenta, dannata a nostalgie feudali e preindustriali. Nel 1609 un poeta parruccone accademico di provincia dispiega nel suo solenne latinorum un inno all’operosità della forra. Mentre lassù, in alto, una accelerazione urbanistica nobilitante e “autostradale” allontana il borgo medievale, lo colloca “in quinta” fino a dimenticarsene. Ma gli uomini, che non sanno stare fermi, tornano a ricordarcelo: pennelli e tavolozze, tele e fogli di viaggiatori-artisti del calibro di Vanvitelli, Robert e Fragonard, Turner. Tra l’alba del XVIII secolo e quella del XIX, dal pittoresco elegante al sublime romantico: pittori fiamminghi francesi inglesi scendono a sporcarsi le scarpe nel fango della forra, piazzano i loro cavalletti sulla strada che costeggia la sponda sinistra del Vicano (sentiero oggi cancellato dall’amnesia di rovi e ortiche), guardano in alto, sognano una quintessenza di bellezza. Raccontano al pubblico colto europeo il fascino di quell’orrido vulcanico, di quelle pareti a picco. Ma anche bozzetti di vita quotidiana: donne che scendono giù dal borgo a lavar panni, gente che suona e canta per cerimonie e dì di festa. Il mito continua: dalla metà dell’Ottocento all’alba del Novecento: da Charles Dickens (il quale, raccogliendo il mito di un’Atlantide sprofondata in fondo a Vico, forse non sapeva di star a dialogare col manierismo tardocinquecentesco dei fratelli Zuccari, Ercole e la sua clava) al camminatore franco-inglese Hilaire Belloc (esausto, ai piedi della rupe di Ronciglione, affascinato da quel paesaggio, sentiva bisogno di un ristoro per il corpo, non certo per l’anima).
Poi venne il ponte in ferro della ferrovia, a cavalcar spavaldo la gola. D’un colpo solo. Ma era già un’altra storia.

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