Quanti errori nei menù per stranieri: lo svela una tesi di laurea

Menu al ristorante

Sono approdata all’Università della Tuscia sei anni fa, nell’ottobre del 2008. Dopo essermi diplomata al liceo linguistico la laurea in lingue sembrava la naturale prosecuzione del percorso che avevo intrapreso cinque anni prima. In realtà, la mia non è stata una scelta dettata dalla logica, ma da una vera e propria passione per lo studio delle lingue e delle culture straniere che ho da quando sono piccola. Nonostante molti dei miei amici avessero scelto di andare a studiare in altre città, io ho deciso di rimanere a Viterbo. Prima di iscrivermi ricordo di aver partecipato a diversi incontri di orientamento e a lezioni esemplificative. La prima impressione degli insegnanti e dell’ambiente universitario in generale era stata positiva, quindi perché me ne sarei dovuta andare? Perché non dare una possibilità alla Tuscia? Il mio portafoglio (o meglio quello dei miei genitori) ne avrebbe sicuramente giovato, e poi non vedevo il motivo di andare fuori per fare qualcosa che mi sembrava venisse fatto bene anche qui. Oggi dopo sei anni e due lauree conseguite in questo ateneo (triennale + magistrale) posso dire di non essere affatto pentita della mia scelta. Sono stati anni intensi, duri ma allo stesso tempo ricchi di soddisfazioni e traguardi raggiunti. 

Inoltre, la cosa bella dell’università è che, oltre a seguire lezioni e a dare esami, dà anche la possibilità di mettersi in gioco e di far emergere la propria personalità e capacità. Un esempio di ciò è sicuramente la tesi di laurea. Durante la preparazione ho avuto l’opportunità di cimentarmi in un argomento con cui non mi ero mai confrontata prima, vale a dire la traduzione gastronomica. Nello specifico, mi sono occupata di analizzare le traduzioni in inglese di cento menù di ristoranti del Lazio. Volevo affrontare un argomento che non fosse stato ancora trattato nel nostro ateneo, per lo meno dal punto di vista della traduzione. L’idea è venuta soprattutto pensando a Expo 2015, che sarà tutta incentrata sul dialogo intorno al cibo e al nutrimento. Quindi con il mio relatore la professoressa Alba Graziano abbiamo pensato che sarebbe stato interessante osservare in che modo il nostro patrimonio gastronomico viene trasmesso quotidianamente ai turisti internazionali. E quale migliore oggetto di studio se non il menù, con cui prima o poi ogni turista in visita nel nostro paese deve misurarsi? Ed ecco la mia tesi: Spaghetti, carbonara style: strategie traduttive di 100 menù del Lazio

I risultati della mia analisi sono stati piuttosto deludenti.  Solo tre o quattro le strutture viterbesi che offrono menù tradotti. È vero che si tratta di una città non molto grande, ma è comunque turistica e ci sono diverse cose da vedere. E poi sono certa che molti studenti del nostro ateneo sarebbero più che contenti di cimentarsi in questo tipo di traduzione se venisse data loro l’opportunità. Ad ogni modo, il problema di Viterbo è lo stesso che si riscontra in molte altre città del Lazio (e probabilmente d’Italia). Infatti, ad eccezione di Roma, rispetto all’alto numero di ristoranti sparsi sul territorio regionale quelli che dispongono di un menù in inglese sono una minoranza. Per di più, la traduzione di questi pochi menù lascia molto a desiderare. La traduzione dovrebbe essere uno strumento volto a facilitare l’accesso del turista ai piatti della nostra cucina, soprattutto quelli tipici che sono particolarmente difficili da rendere in un’altra lingua e cultura. Invece, ho potuto constatare che in molti casi essa rappresenta un ostacolo alla comprensione piuttosto che un supporto. Sintagmi in cui l’ordine delle parole ricalca l’italiano e ha poco a che fare con la sintassi inglese, uso scorretto di plurale e singolare, errori di ortografia, di lessico e chi più ne ha più ne metta. Giusto per citare qualche perla: chissà quale sarà la reazione del cliente che dopo aver ordinato il Risotto with pumpkin flowers si troverà di fronte un piatto a base di zucchine invece che di zucca? O ancora: cosa si intenderà mai per Brushed up vegetables? “To brush up significa “ripassare mentalmente/ rinfrescare le idee”, quindi sicuramente non ha nulla a che fare con le nostre “verdure ripassate” a cui l’espressione si riferisce. Questo è solo un assaggio (per rimanere in tema) degli errori che si trovano nei menù inglesi dei nostri ristoranti e che spero di aver messo in risalto con la mia tesi. Magari qualche ristoratore più scrupoloso e che ha a cuore i propri clienti stranieri recepirà il messaggio che ho voluto lanciare, rivolgendosi a un traduttore professionista per la versione inglese del proprio menù, oppure assumendo personale che conosca l’inglese. L’Italia è paese famoso per la cordialità e l’ospitalità che riserva ai turisti, quindi un’alternativa alla traduzione scritta, potrebbe esser quella di puntare sull’oralità e sull’interazione personale. Al tutto si potrebbe aggiungere un po’ di quella gestualità tipica dell’ Italian style che tanto piace ai turisti stranieri.

Dal canto mio posso dire che il lavoro è stato impegnativo ma molto stimolante, per non parlare della quantità di lessico gastronomico che ho avuto modo di imparare. Chissà, magari anche nel nostro ateneo si potrebbero avviare corsi di traduzione incentrati sulla gastronomia, in grado di formare professionisti in un settore chiave per l’economia del nostro paese.

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