Publio Muratore, una mostra che ne traccia la “memoria”

Luciano Costantini

Una mostra all’ex Mattatoio di valle Faul a Viterbo. Inaugurata, non a caso, appena qualche ora prima della “Giornata della Memoria”. E non è neppure un caso il momento scelto per l’apertura: perché ricorre quest’anno il centenario della nascita dell’artista. Ma Publio Muratore  (nato a Gallese nel 1918, viterbese di adozione) merita di più, molto di più, di una rassegna di opere che pure ne sintetizzano bravura e dimensione umana. Sicuri che a legittimarne la grandezza saranno i posteri. E non c’è enfasi in questa certezza. Basta rilasciare con attenzione lo sguardo sui 94 disegni (degli oltre 500 prodotti in vita) e sui 20 quadri allestiti nei locali dell’Auditorium Fondazione Carivit per comprendere come il personaggio è di quelli che lasciano il segno. Gli episodi di una vita, raccontati a pezzi come in un mosaico, da una delle tre figlie, Maria Teresa, aiutano a capire ancor di più questo professore di disegno e storia dell’arte (molti alunni lo ricordano ancora come insegnante e vice preside al Liceo Scientifico del capoluogo), maestro di pittura e di scultura. Con un passato tribolato, trascorso nei campi di sterminio nazisti. “Quell’esperienza – ricorda la signora Maria Teresa – probabilmente lo aveva addolcito, gli aveva fatto conoscere quanto la vita può essere preziosa. A tavola sempre attenzione all’acqua e al pane che doveva essere tagliato a fette sottilissime. Niente doveva essere sprecato perché in prigionia sete e pane erano stati nemici mortali e dunque da rispettare. No, non amava tornare con la memoria a quegli anni. Una volta durante uno dei frequentissimi viaggi familiari in roulotte, notai un cartello che segnava Dachau 8 chilometri…papà andiamo?. No, non è il caso, replicò senza batter ciglio”. Voleva rimuovere quel passato drammatico che aveva segnato la sua esistenza. Portava invece sempre con sé la cassetta degli attrezzi: blocco di carta, penne e pennelli. “Disegnava tutto e con tutto: bianco, nero, rosso. Spesso tracciava degli schizzi sui fogli e poi, a casa, li trasformava in disegni”, rammenta la figlia. Ma usava anche i pennelli per giganteschi affreschi: quello con il ciclo della vita della Madonna riprodotto nella cappella di Villa Rosa a Viterbo, l’affresco dell’abside del Duomo di San Famiano a Gallese, quello del Duomo di Ronciglione, altri dipinti nella chiesa della Trinità nel capoluogo e a Capranica, una pala nella basilica di Santa Rosa. Ma anche tanti affreschi in case private. E poi sculture, soprattutto quelle riguardanti i Caduti di guerra: a Vignanello, a Gallese, a Orte Scalo, a Piansano, un busto di Garibaldi all’interno della sede della Provincia. “Non si è fatto mancare neppure la progettazione e costruzione di carri allegorici, come testimonia una vecchia foto scattata in occasione di una sfilata a Ronciglione con lui mascherato”, ricorda ancora la signora Maria Teresa. C’è un quadro in mostra che rappresenta un chiostro con uno scorcio di una anonima città sullo sfondo: “Non so identificare il luogo – si giustifica con un sorriso la figlia –  so soltanto che è nato su una musica che alcuni frati avevano fatto ascoltare a mio padre”. Il suono che ispira la musa. La rassegna, che resterà aperta fino al 18 febbraio è un omaggio della sua terra all’artista: gli sponsor sono il Comune di Viterbo, la Fondazione Carivit, il Lions Club di Viterbo, il Comune di Gallese, la Camera di Commercio. Cinque le sezioni espositive: la prima dedicata a Viterbo e al rapporto dell’artista con la città; la seconda studi e disegni su volti, espressioni, gesti; la terza opere nate durante i numerosi viaggi; la quarta bozzetti per opere pittoriche; la quinta il bozzetto e la sua evoluzione fino a diventare opera pittorica. Buona visione.

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