Il libro in tasca-Non di più, non di meno

Chiara Mezzetti

Torna lo stile graffiante di Chiara Mezzetti. I racconti del giovedì ci parlano di infanzia, di perdite, di solitudine, di amore e di silenzi che valgono come macigni. Una lettura da fare tutta d’un fiato per conservare poi il sapore delle piccole grandi storie…..

A merenda pane e zucchero. Con il succo di frutta nel cartoncino, che alla fine sapeva sempre di strano.

Aveva le mani grosse, l’Adele. Tutte smaltate di rosso che le dita tozze sembravano immerse nelle fiamme. Lo smalto era sempre perfetto. Se lo ripassava dopo pranzo seduta a capotavola.

Daniela la guardava, ipnotizzata dal ritmo rituale del pennello che sfiorava l’unghia. Voleva metterlo anche lei lo smalto, ma l’Adele scuoteva la testa, «sei piccola».

Daniela non faceva capricci, non piangeva. Era una brava bambina e al “no” si rimetteva subito seduta. Braccia conserte e gambe a ciondoloni, sognava lo smalto, sognava d’essere una donna bellissima.

Io non la sopportavo, l’Adele. Per me era una figura estranea, un cyborg da combattere, un’aliena approdata nella nostra casa solo perché la mamma non ci voleva bene. Era lei che avrebbe dovuto farci pane e zucchero, o pane e qualsiasi altra cosa. Non l’Adele. Odiavo mia madre perché non c’era, e l’Adele perché invece c’era sempre.

A l’Adele non piaceva uscire. Diceva «non è giornata per la gente, si sta a casa». S’accendeva una sigaretta, tenuta stretta tra indice e medio, intrecciata alle unghie rossissime e splendenti. E allora rimanevamo a casa, con quaranta gradi fuori, il sole a picco, e le persiane chiuse. Con il puzzo di smalto e sigaretta, e lo sguardo dell’Adele che ci seguiva distratto, affaticato da qualche tristezza.

Nei giorni più belli l’Adele ci portava dei fogli e la colla. Apriva un pacco di riso e giocavamo a fare i disegni, a sistemare i chicchi precisi. Daniela ci s’impegnava e alla fine piangeva sempre. Perché non si sentiva all’altezza, perché il mio era più bello, perché lo smalto non l’avrebbe messo mai e il tempo in cui sarebbe diventata qualcuno era troppo lontano per dirsi reale. Piangeva fino a sentirsi male, fino a che non cadeva a terra, quasi svenuta. Credo che lo facesse apposta. Le piacevano lo stordimento, il pavimento freddo, la testa leggera, le orecchie informicolite. L’Adele la prendeva in braccio e la trasportava sul letto, le versava un bicchiere d’acqua in bocca e le teneva le caviglie alzate. Niente carezze, niente baci. L’Adele era una che faceva ciò che bisognava fare. Non di più, non di meno.

E bisognava darci la merenda, controllare che nessuno si facesse male.

Quel giorno, ci aveva dato la merenda, ma non era abbastanza. Non di più, ma troppo meno.

Quando Daniela è morta, pioveva. Pioveva a scroscio, un rumore fortissimo. Io giocavo a fare il pirata, immaginavo di cavalcare le onde sul mio veliero di carta, di cavalcarle come destrieri imbizzarriti, di domare la tempesta. E di salvare la mamma dagli squali, ché lei allora m’avrebbe dovuto amare per forza. E salutare l’Adele, abbandonarla su un’isola in mezzo agli indigeni e le palme. Lasciarla lì a mettersi lo smalto, a fumarsi le sue sigarette. E finalmente tornare sulla terraferma, abbracciare la mamma, uscire col sole, giocare con Daniela.

Hanno sempre parlato di incidente. Io non c’ho mai creduto fino in fondo. «È impossibile che una bambina si sia uccisa». E invece per me era possibile. E anche per l’Adele. Non lo dicevamo, stavamo in silenzio. Ma io il suo sguardo lo sentivo addosso, attaccato. Uno sguardo che diceva «non di più, non di meno», «non dire niente, non è il caso».

L’Adele aveva preso la manina di Daniela nella sua. L’aveva accarezzata sfiorando gli artigli rossi sul dorso. Poi ci aveva passato lo smalto, aveva scosso la testa e aveva sussurrato «sei piccola».

Quando Daniela è morta, l’Adele se n’è andata. E con loro la mia infanzia, per quel che poteva valere.

 

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