Livio Trapè: ricordi in bianco e nero di due medaglie olimpiche

Chiara Mezzetti

Livio Trapè, medaglia d’oro e d’argento alle Olimpiadi del ’60, si racconta oggi per Tusciaup, in un’intervista che sa di passioni e fatica, soddisfazioni e rimpianti, competizione e affetti. Livio, originario di Montefiascone classe 1937, racconta la sua storia con lo sguardo acceso e le foto in bianco e nero ben strette tra le mani.
Come nasce la passione per il ciclismo?
La passione mi è stata trasmessa da mio fratello Ardelio (recentemente scomparso all’età di 98 anni, ndr). È andato a combattere in Africa nel periodo della Grande Guerra, che gli ha portato via gli anni d’oro della gioventù, e quindi della carriera sportiva. Ha ripreso a correre a 28 anni e riusciva comunque a ottenere ottimi piazzamenti. Lui è stato il mio fratello maggiore nella vita e nel ciclismo. Mi ha consigliato di iniziare nel ’56, avevo 19 anni. Prima sono entrato nei dilettanti della SS Lazio. Grazie alla sua vicinanza, non ho pagato il noviziato come gli altri.
E poi?
Le vittorie conseguite presso la SS Lazio hanno svegliato l’interesse di altri gruppi sportivi. Nel ’58 è arrivata la convocazione in Nazionale per il Mondiale di Francia. Avrei corso a Reims in veste di capitano della squadra. L’anno decisivo è stato il ’60. Anche a casa mia arrivò la famosa “lettera del militare”. Sarei dovuto partire per 18 mesi, lontano dalla bicicletta e da tutto il mio mondo. La Federazione ciclistica però intervenne e io quell’anno partecipai alle Olimpiadi di Roma. Era la 100 km cronometro. Ho staccato russi e tedeschi e ho vinto la medaglia d’oro.
Cosa si prova a salire sul gradino più alto del podio?
È una sensazione indescrivibile. Lascio immaginare a tutti gli sportivi cosa significhi trovarsi lì, stringere tra le mani la medaglia d’oro e cantare l’inno nazionale contornato da tutti gli altri campioni.
 
Quell’anno vinse anche una medaglia d’argento…
Tre giorni dopo la medagoia d’oro, ero di nuovo in pista e correvo per la prova individuale sul circuito di Grottarossa. Kapitanov aveva staccato tutti, e io dovevo andarmi a riprendere il russo. Si ruppe il pignone della ruota posteriore. Non avevamo una ruota di scorta, così continuai a correre con la gomma forata. Un amico mi gridò da bordo pista: “parti che stanno rientrando” e io mi innervosii a tal punto da sbagliare il calcolo della volata. Kapitanov mi battè per 10 cm. Fu medaglia d’argento, ma anche un grande rimpianto.
L’anno successivo, il ’61, correvo al Giro d’Italia. Mi trovavo su quello che in gergo ciclistico è definito il tappone, ovvero la tappa più difficile e importante: la Trento-Bormio. Entrato a Merano, affrontai due curve non segnalate, e lì la frenata brusca mi portò a una rovinosa caduta. Mi ruppi il femore, e la frattura più grossa si aprì nella mia carriera sportiva.
Da lì in poi ottenni sempre ottimi piazzamenti (per es. al Giro di Romagna, di Calabra, Grande Giro di Lombardia), ma mai più una vera vittoria. Ho concluso la mia carriera nel ’66 con il Giro di Spagna, in arrivo a Bilbao ho detto alla mia compagna di viaggio, la bicicletta: “dai cara, è la tua ultima volata”. E ho mantenuto la promessa.
Secondo lei cosa è cambiato tra il ciclismo degli anni ’60 e quello odierno?
Oggi il ciclismo si è evoluto talmente tanto che è impossibile fare dei confronti. Noi gareggiavamo con biciclette da 11 kg e 7 rapporti, oggi i rapporti si sono raddoppiati e i pesi delle bici dimezzati.
Si sente un ciclista un po’ sfortunato?
La famiglia Trapè ha dato tanto al ciclismo. Il contributo più alto l’ha pagato mio fratello Ardelio, che in pista ad Abbadia San Salvatore perse suo figlio Sandro a soli 18 anni. Il mio rammarico è quello di non aver potuto dimostrare al mondo professionistico ciò che valevo.
 
Cosa consiglierebbe ai ragazzi che oggi vogliano intraprendere una carriera professionistica nel ciclismo?
Dovete maturare la solida consapevolezza che lo sport è correttezza, serietà e sacrificio. E questo basta.
(Nella foto Livio Trapè e Viktor Kapitonov alle Olimpiadi di Roma del 1960)
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