I Fratelli Maristi lasciano Viterbo dopo oltre un secolo di attività

Vincenzo Ceniti

La Comunità religiosa dei Fratelli Maristi lascia definitivamente Viterbo. L’annuncio ufficiale l’ha dato domenica 10 settembre con un velo di tristezza l’attuale superiore fratel Marco Radicetti al termine della Messa domenicale nella chiesa di Santa Maria della Verità.

Lo sapevamo da tempo che per una serie di circostanze (crisi delle vocazioni, difficoltà finanziarie), i Maristi se ne sarebbero andati via dalla nostra città, ma la notizia ci ha egualmente rattristato se pensiamo ai 104 anni di attività passati a testimoniare il credo del  loro fondatore Marcellino Champagnat. “Per educare i giovani – diceva –  bisogna prima conquistare il loro cuore”. Parole benedette che per ex alunni come noi sanno di sapori, valori e ricordi ormai lontani nel tempo.

I Fratelli Maristi giunsero a Viterbo nel 1913. Inizialmente presero alloggio in alcuni ambienti del palazzo Ruspoli-Capizucchi (già appartenuto a Girolamo Pamphili), oggi sede della Stazione dei Carabinieri in via della Pace, dove organizzarono i primi corsi di studi privatistici.

Nel 1923 acquistarono un terreno nel quartiere dei Cappuccini (viale della Rimembranza, dal 1925 viale IV Novembre)  per la costruzione di un collegio-convitto “… allo scopo di educare e istruire i giovani sotto la benefica influenza della Religione poiché possano diventare uomini onesti e virtuosi, onore della famiglia e della Patria”.

La prima pietra fu posta nel 1924 alla presenza, tra gli altri, del card. Francesco Ragonesi nativo di Bagnaia (1850-1931) cui l’edificio verrà intestato. I lavori terminarono nel 1926. La scuola venne aperta l’anno successivo. Fu il cardinale  a volere la realizzazione della Cappella, sul fronte destro del fabbricato, inaugurata nel 1932. Gli affreschi furono eseguiti dalla pittrice Eugenia Saveri. Nella aule della scuola, rese visibili da una vetrata per il controllo degli alunni, sono passate generazioni di “ragazzi” viterbesi. Ricordo a memoria Giovanni Fani Ciotti, Gianfranco Malè’, Manlio Pace, Alvaro Zuppante, Giancarlo Bettini, Rodolfo Gigli (Nando), Sandro Zucchi, Giuseppe Fioroni, Giorgio Ricci, Luigi Hardouin, Roberto Barghini, Agostino Felli, Fernando Burchiani …

L’Ordine dei “Fratelli Maristi delle Scuole” venne fondato in Francia nel 1817 da Marcellino Champagnat (1789-1840) per l’istruzione delle gioventù povere e per le attività di catechesi.

Anch’io ho frequentato quella scuola dei Maristi per tre anni, a partire dal 1946. I ricordi sono sbiaditi ma abbastanza robusti, quanto basta per aggrapparmici e trovarne sicurezza. Se confrontati con la realtà di oggi sono anche indispensabili e preziosi.

Ad esempio l’innocente invidia per i miei colleghi “interni” che, venendo dalla provincia, soggiornavano a convitto, tipo pensione completa. Dormivano in ampi saloni del piano superiore cui a noi “esterni” era proibito accedere. In un arioso refettorio consumavano i pasti preparati da un cuoco tuttofare di nome Marco, un omone tozzo e robusto, dai movimenti lenti, con baffi alla Stalin e grinta da “mangiafuoco”. L’odore acre di quella sala mensa a distanza di tanti anni lo saprei distinguere tra centomila. Io non ci ha mai mangiato. Una volta in via eccezionale mi consentirono, benché esterno, di mettermi in fila per ricevere la merenda dopo la ricreazione pomeridiana: una mela con alcune noccioline americane.

In verità erano pesanti quei lunghi silenzi nella Capella durante i frequenti momenti di preghiera, cadenzati dal suono soft di un organo elettrico cui poteva sedere solo lui, il più anziano dei “fratelli”, dal nome solenne e imparziale di Giusto. Fratel Giusto insegnava, tra l’altro, disegno, tossiva spesso e lo faceva con autorità e contegno avvolgendo amorevolmente il catarro in un capiente fazzoletto bianco riposto nell’ampia saccoccia. Alla lavagna sapeva fare col gesso un cerchio perfetto, come Giotto. Si ricorreva a lui per avere giustizia presso il preside in caso di presunti soprusi.

Eppoi il rispetto, quasi una venerazione, per un “interno” che  giocava così bene a calcio da guadagnarsi il soprannome di Mazzola. Erano i tempi del grande Torino perito tragicamente a Superga nel 1949.

Insieme ad un compagno di Viterbo, Mario Feliziani, i cui genitori gestivano una tabaccheria in via Mazzini, feci le prime esperienze di fumo con una sigaretta di Nazionali dal pacchetto segnato da una vistosa “N”,  alla Napoleone. Per non farci scoprire dai Prefetti (i “fratelli” addetti alla sorveglianza) ci arrampicavamo su un cipresso di fianco alla Cappella col pericolo di romperci l’osso del collo.

Per arrotondare le rette, ricordo che i fratelli Maristi affittarono negli anni Cinquanta-Sessanta la palestra ad un uomo alto e ossuto coi baffi e i capelli alla mascagna, per allestire una sala cinematografica chiamata “Cinema San Giorgio”.  Vennero rimossi gli attrezzi ginnici (pertiche, corde, quadrato, cavalli di legno) per far posto alle sedie di legno fissate al suolo. Film rigorosamente in bianco e nero che per noi ragazzi si dividevano in due categorie: d’amore e di guerra (ivi compresi i cow boys di Tom Mix). Lo stupore per il  fascio di luce che usciva denso di immagini dal foro della cabina di proiezione, il fumo delle sigarette che s’affettava, il rumore fastidioso della carta di caramelle ed altro saranno immortalati qualche decennio più tardi da Giuseppe Tornatore nel film “Nuovo Cinema Paradiso”. Quella sala cinematografica ebbe vita breve; ritornò la palestra e con essa i salti e le capriole di una gioventù che non torna più.

 

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