David Pasquini: l’università tra creatività e conoscenza

David Pasquini

Nato a Viterbo nel 1983, ho vissuto in Francia, a Parigi, dove ho frequentato parte della scuola elementare, delle medie e parte del Liceo. Nel 1999 sono tornato a Viterbo dove ho concluso le scuole superiori nel 2002, presso l’Istituto Santa Rosa.Dal 2002 a 2005 ho frequentato la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi della Tuscia (matricola numero 2). Nel 2008 ho conseguito la Laurea Specialistica presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Universtà La Sapienza di Roma. Tornato a Parigi ho lavorato dal 2008 al 2012 per il gruppo Air France-KLM. Dal 2012 vivo in Messico, lavorando presso l’Università Autonoma di Guadalajara.

Per la mia generazione, la prima a sperimentare a pieno regime la riforma Berlinguer ed il 3 più 2, il mondo accademico aveva le sembianze di un bazar asiatico. Il nuovo ordinamento aveva infatti generato la balcanizzazione dei settori scientifico-disciplinari e creato percorsi formativi tanto creativi ed a buon mercato quanto inutili per la loro reale spendibilità professionale: lauree triennali in Scienze della Web-Economy e specialistiche in Scienze delle Alpi o in Yoga. La riforma aveva oltretutto alimentato l’ennesima frattura generazionale fra i figli del vecchio ordinamento e le matricole del nuovo corso.

I primi guardavano spesso con sospetto e superiorità i neo entrati, accusando la riforma d’aver democratizzato o forse popolarizzato l’accesso agli studi universitari, fino ad allora protetto da una muraglia di élitarismo anacronistico ma di notevole fascino. Critiche tutt’altro che condivisibili se la democratizzazione (smentita dai successivi studi statistici) non avesse coinciso con un’effettiva involuzione qualitativa della formazione universitaria.

La mia generazione è stata al contempo la prima ad entrare con successo in un sistema formativo pienamente comunitario fatto di borse Erasmus, crediti formativi europei e riconoscimento automatico dei titoli di studio nei paesi membri dell’Unione. La scelta d’iscrivermi alla Facoltà di Scienze Politiche, allora appena istituita all’Unitus fu dettata, come forse spesso accade, più da miopia e timore che da lungimiranza: avevo cioè favorito lo studio di discipline di mio interesse contingente alla formazione nei settori più richiesti dal mondo del lavoro e, temendo che l’università diventasse anche nel mio caso un parcheggio di lunga sosta, avevo creduto più prudente correre il rischio di stazionarmi vicino casa anziché fuori sede.

La neonata Facoltà, priva del fardello del vecchio ordinamento, aveva puntato su docenti di prestigio (il professorMaurizio Ridolfi ed il professor Raffaele De Mucci fra gli altri) e su una bipolare propensione ad assecondare le richieste del mondo professionale : se in un intervento presso il Consiglio di Facoltà, in merito al piano di studi, un funzionario di un’importante banca viterbese consigliava di puntare soprattutto sull’inglese e sull’informatica – erano i tempi della scuola morattiana delle tre i- dall’altro lato, rispondendo ad esigenze senza dubbio differenti, lo stesso Consiglio decise di sostituire la materia di Statistica con quella di Storia del Giornalismo, giacché la prima risultava troppo ostica e rappresentava un «deterrente» per nuove iscrizioni. L’interazione con il mondo del lavoro, veniva poi resa monca dall’assenza di un’efficace politica di tirocini, esperienza che fu possibile solo a pochi eletti, forse anche per responsabilità delle forze produttive locali, all’epoca restie a collaborare con il mondo universitario.

L’esperienza successivamente maturata in altri Atenei o semplicemente il confronto con studenti di altre Facoltà dell’Unitus, dove queste pratiche non erano usuali, mi fanno sospettare che le ragioni di tanta indulgenza risiedessero però altrove. Come noto le classifiche sulla qualità della formazione universitaria non sono particolarmente generose con l’Italia. Nell’Academic Ranking of World Universities di Shangai (Arwu) del 2014, l’Italia conta solo 6 università fra le prime 200, con pesanti distacchi dagli atenei anglosassoni ed asiatici che guidano la classifica. Le statistiche hanno però valore solo se interpretate contestualmente alla metodologia utilizzata nella ricerca : l’Arwu prende in considerazione parametri come lo stipendio dei dei ricercatori, il numero di pubblicazioni scientifiche, i premi Nobel attribuiti e, l’Italia, eccellente esportatrice di talenti ed abituata alla scure sui finanziamenti alla cultura ed alla ricerca, non poteva certo aspirare a posizionamenti migliori. Ci sono tuttavia altri aspetti degni di considerazione ma di più difficile rilevazione statistica.

L’esterofilia accademica, malattia congenita degli italiani contro la quale esiste però un efficace vaccino (il soggiorno universitario all’estero) accieca spesso su uno dei più grandi meriti della scuola e dell’università italiana, la capacità di insegnare ad apprendere, frutto del pensiero critico, dello studio di discipline teoriche o semplicemente dello studio sui libri, pratica, quest’ultima, piuttosto rara in altri Paesi. Al contrario di quanto si crede il mondo del lavoro non necessita solo di conoscenze pratiche: la tecnologia e la società moderna subiscono infatti accelerazioni troppo brusche per avere la presunzione d’inseguirle con il solo bagaglio tecnico. La disposizione all’apprendimento non è una concezione filosofica ma piuttosto una forma mentis capace d’autogenerare creatività e conoscenza.

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