Barcellona: il brusco risveglio indipendentista

David Pasquini

Alla fine si è votato, ha vinto il popolo catalano ma è stata una farsa, un simulacro. Madrid ha boicottato il referendum, sequestrato urne, schede, chiuso alcuni seggi ed oscurato il sistema informatico della Generalitat. È stata una guerra al confine fra postmodernità e tradizione perché si è usata la cibernetica ma anche tanto, troppo manganello. Il pirataggio informatico organizzato da Madrid ha impossibilitato il controllo ufficiale dei voti e dei votanti, si poteva votare ovunque, indipendentemente dal seggio d’appartenenza, con schede stampate a casa e senza documenti d’identità. Ha vinto il popolo separatista ma non abbastanza per poter proclamere l’indipendenza.
L’intricato affaire catalano si conclude così, con la sconfitta politica di entrambi i contendenti. Hanno perso i separatisti e la variegata compagine governativa che il referendum lo hanno indetto e difeso ad oltranza, nonostante il parere negativo della Corte Costituzionale.
Politicamente sconfitti per non aver saputo costruire un progetto credibile che andasse al di là dei proclami di uno stato indipendente più giusto e con meno disoccupati.
Come rinegoziare l’adesione all’Unione Europea? Quale moneta adottare nel complicato processo d’adesione? Come garantire il welfare e le pensioni se non al prezzo di una dispendiosa campagna di finanziamento sui mercati internazionali con tassi d’interesse stellari? Sono tutte domande rimaste senza risposta in un dibattito che si è ridotto a “Madrid ladrona” e si è poi polarizzato ad un “o noi o loro” e, nella retorica indipendentista, “loro” sono i “vicini” spagnoli.
Politicamente sconfitti, i separatisti, per aver scoperchiato il vaso di Pandora del nazionalismo catalano ed averlo alimentato con una buona dose di vittimismo fino a sostenere improbabili analogie tra Kosovo e Catalogna, fra un popolo vittima di pulizia etnica ed uno che invece gode di ampie libertà nel quadro di una moderna democrazia europea. Si è arrivati a propagandare il deliberato anticatalanismo della costituzione spagnola del 1978, conosciuta anche come costituzione dei barcellonesi poiché riconosceva le autonomie locali, decentrava il potere e tutelava le diversità linguistiche a tributo delle tradizionali rivendicazioni delle forze politiche catalane.
Politicamente sconfitti, gli indipendentisti, per aver interpretato la democrazia come una mera questione di urne e di schede, che è piuttosto la chiave di lettura dei plebisciti che si celebrano nei regimi autoritari. Un’ossessione democratica ad intermittenza, quella delle forze separatista, che li ha condotti a promuovere una modifica del regolamento del Parlament (l’assemblea catalana) per permettere ai gruppi parlamentari di approvare leggi in lettura unica, limitando i diritti della minoranza e le possibilità di presentare emendamenti: strategia, quest’ultima, che fiorisce nei parlamenti dove la democrazia arretra. Moralmente sconfitti per aver tentato di monopolizzare il concetto di libertà: libertà di votare, libertà di proclamare unilateralmente l’indipendenza e libertà di non rispettare la costituzione.
Politicamente sconfitto Carles Puigdemont, il presidente della Generalitat. Aveva promesso di internazionalizzare la causa dell’indipendenza, ha bussato alle porte dei paesi vicini ottenendo risposte piuttosto tiepide. Battutto sullo scacchiere della realpolitik da chi ha finto di non sentire le urla catalane per evitare che potessero essere d’ispirazione ai brusii degli indipendentisti di casa propria.
Eppure, Mariano Rajoy, il Primo Ministro spagnolo, ha commesso errori che potevano spalancare la strada al successo separatista. Si è prima mostrato totalmente disinteressato alla questione catalana, quasi a sminuire la portata della consulta referendaria, poi ha improvvisamente accelerato con un pugno di ferro intempestivo, messo in atto a pochi giorni dal voto quando gli animi rischiavano di essere più sensibili. Ha fatto arrestare sei alti funzionari della Generalitat implicati nella preparazione del referendum, ha ottenuto l’oscuramento di siti internet ed ha dato mandato di perquisire le sedi dei partiti di maggioranza, in una disperata e parodistica ricerca delle urne e delle schede elettorali da distruggere. Ha interrotto i finanziamenti e commissariato i Mossos, la polizia catalana, perché sapeva, come poi si è avverato, che si sarebbero ammutinati, respingendo l’ordine di impedire con la forza lo svolgimento della votazione. Ha mandato la Guardia Civil a pattugliare le città ed a sgomberare i seggi. Un bilancio di quattro arresti ed oltre 750 cittadini feriti, due in modo grave, scene di violenza e poliziotti che sparano proiettili di gomma. Una disperata rincorsa contro il tempo, quella di Rajoy, un eccesso di autoritarismo un po’ nostalgico, un po’ reazionario, da guardiano della tomba di Franco, come ha detto Puigdemont.
Rajoy ha finito per mobilitare i separatisti più di quanto avevano saputo fare i partiti indipendentisti: ha ispirato la rivoluzione in pigiama, come l’ha definita un editorialista de El País. Nelle dieci notti che hanno preceduto il referendum, in Catalogna, si è protestato con il cacerolazo percuotendo pentole e padelle dalle finestre e dai balconi di casa. In pigiama, con i sacchi a pelo, intere famiglie hanno occupato gli edifici scolastici per consentire lo svolgimento del voto e proteggerli dall’intervento dell’esercito.
Le mosse di Rajoy hanno alzato la tensione a livelli difficilmente immaginabili. Si ha la sensazione di una frattura sociale ormai insanabile che supera l’antitesi fra separatisti ed unionisti per sostituirla con quella fra democrazia e dittatura.
Ostacolando il regolare svolgimento della votazione Rajoy ha vinto una battaglia, ma è una vittoria pirrica: l’ottanta per cento dei catalani vuole un referendum sull’indipendenza, il cinquanta per cento è favorevole alla secessione. Sono numeri importanti di cui il prossimo Primo Ministro non potrà non tener conto. Sono numeri che dimostrano che un compromesso fra Barcellona e Madrid sull’organizzazione del referendum è inevitabile, oltreché auspicabile, ed indicano soprattutto che la battaglia finale contro l’indipendentismo catalano è ancora aperta, dovrà giocarsi in politica, senza manganelli, smascherando i limiti, le contraddizioni e l’improvvisazione dei separatisti.

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